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Dettagli

1993
1 gennaio 1993
560 p.
9788811598411

Voce della critica


recensione di Pianta, M., L'Indice 1993, n.10

Nel 1798 Thomas Robert Malthus pubblicò a Londra il suo "Saggio sul principio della popolazione", denunciando i pericoli di una crescita della popolazione più rapida dell'aumento della produzione agricola. Il pessimismo malthusiano non aveva però fatto i conti con l'avvio della rivoluzione industriale, e un secolo dopo si poté constatare che nel corso dell'Ottocento in Gran Bretagna la popolazione era sì aumentata di quattro volte, ma il prodotto nazionale era cresciuto di quattordici volte.
È passato un altro secolo e un altro brillante studioso inglese ripropone alcune di quelle domande, guardando alle trasformazioni di lungo periodo. Paul Kennedy, storico trapiantato a Yale, reso famoso dal suo libro "Ascesa e caduta delle grandi potenze" (Garzanti, 1989), dopo aver analizzato le alterne fortune degli imperi passati e il declino relativo del potere americano di questi decenni, lancia ora lo sguardo al futuro nel suo "Verso il XXI secolo", tradotto con tempestività da Garzanti. Oltre alla crescita della popolazione, la questione ambientale, le nuove tecnologie agricole e industriali, dalle biotecnologie alla robotica, sono i principali fenomeni che disegneranno il nuovo secolo, in un contesto di globalizzazione dell'economia e di declino degli stati nazionali. Il voluminoso ma accessibile libro di Kennedy offre una rassegna di questi problemi per i non addetti ai lavori, con la documentazione essenziale e una sintesi del dibattito corrente.
La forza maggiore del lavoro di Kennedy sta nella sua ottica coerentemente globale, che individua i fenomeni chiave del prossimo secolo in processi di portata planetaria, fuori dal controllo degli attuali poteri nazionali, superando così le ristrettezze degli approcci "realistici" alle relazioni internazionali e le illusioni di ripiegamento su ottiche nazionali, rilanciate di recente perfino in Italia da una rivista come "Limes".
Riformulando il dilemma malthusiano per il XXI secolo, Kennedy pone la questione di "come utilizzare il 'potere della tecnologia' per rispondere alle sfide lanciate dal 'potere della popolazione' ". E si chiede come "liberare i tre quarti più poveri della popolazione del pianeta dalla sempre più soffocante trappola malthusiana della malnutrizione, dell'inedia, dell'esaurimento delle risorse, della conflittualità sociale, dell'emigrazione forzata e della guerra, le cui conseguenze non mancheranno certo di colpire, seppur meno direttamente, anche le nazioni più ricche".
L'analisi di Kennedy, fedele alle buone maniere dell'accademia anglosassone, si tiene alla larga da giudizi politici o morali, ma è assai lucida su alcune almeno delle contraddizioni del nuovo secolo. Una delle più importanti è la divaricazione tra i luoghi dei problemi e le opportunità di soluzioni. Due secoli fa pressione demografica e sviluppo produttivo avvenivano nella 'stessa' società, sconvolgendo struttura sociale e rapporti tra le classi, ma offrendo anche alcune risposte ai problemi creati. Ora i problemi demografici stanno nei paesi poveri e le soluzioni tecnologiche (nuove tecniche agricole, innovazioni, aumento della produttività) sono realizzate da quelli ricchi, con l'obiettivo di rafforzare i vantaggi economici. Le soluzioni che la tecnologia del Nord del mondo può offrire finiscono così spesso per aggravare i problemi del Sud, per esempio mettendo fuori mercato le sue produzioni tradizionali, sostituendone le esportazioni, imponendo (e facendo pagare) la tecnologia del Nord.
Il primo problema resta la questione demografica. Ai tempi di Malthus, nel 1825, la popolazione mondiale era di circa un miliardo di persone, è salita a 2 miliardi nel 1925, a 4 nel 1975, a 5,3 miliardi nel 1990. La stima media per il 2025 è di 8 miliardi c mezzo di terrestri, con varianti alte (9,4) e basse (7,6 miliardi). Il secondo problema è il degrado ambientale, trattato approfonditamente, forse anche sull'onda del dibattito che ha circondato nel 1992 la conferenza di Rio delle Nazioni Unite sull'ambiente. Kennedy si concentra sulla dimensione globale della distruzione dell'ambiente (con molti riferimenti a lavori del Worldwatch Institute), analizza in particolare l'effetto serra e le responsabilità dei paesi industrializzati, ritorna spesso sui consumi energetici e ci ricorda che gli Stati Uniti, col 4 per cento della popolazione mondiale, consumano un quarto della produzione mondiale di petrolio.
Meno convincenti sono i capitoli dedicati alle questioni economiche, al ruolo delle imprese multinazionali, alle tendenze tecnologiche. Qui, nell'analisi di processi sociali anziché di tendenze naturali, sono più evidenti i limiti del suo approccio: manca un'analisi dei soggetti che danno forma a questi processi, delle loro strategie, differenze, dei possibili esiti alternativi. Si presentano spesso estrapolazioni un po' meccaniche di aspetti isolati, gli esempi di nuove tecnologie appaiono troppo particolari per essere pervasivi delle future trasformazioni produttive, manca un quadro di riferimento quantitativo che definisca la portata di questi processi.
Più sorprendente è la superficialità con cui Kennedy tratta del declino degli stati nazionali, un tema di sua competenza specifica, che rispunta di continuo nella descrizione di come i travolgenti processi globali mettono in crisi i poteri nazionali. Colpisce qui l'assenza di ogni riferimento ai problemi di governo mondiale dei processi, al futuro ruolo delle Nazioni Unite, alle forme possibili di un ordine internazionale che travalichi i confini degli stati (su questi temi si può rimandare a un altro libro recente, "Cosmopolis". È possibile una democrazia sovranazionale?", a cura di Daniele Archibugi, manifestolibri, Roma 1993).
La seconda parte del volume è dedicata a sei ritratti di come le principali aree del globo - Giappone, India e Cina, il Sud, l'ex Urss, l'Europa e gli Usa - si preparano al nuovo secolo e si misurano con i processi esaminati in precedenza. Se qui alcune considerazioni si fanno più concrete, l'analisi diventa meno penetrante, basata largamente su una rimasticatura delle opinioni correnti. In tutto il libro, ma qui in particolare, sono evidenti i limiti di un uso eccessivo di fonti secondarie e di divulgazione per arrivare spesso ai commentatori dei quotidiani.
È un limite che si trova anche nel capitolo sull'Europa, stranamente ottimista sulle prospettive del vecchio continente, che appare già datato, ancorato com'è alla mitologia dell'unificazione europea, con mercato unico e trattato di Maastricht, un progetto sepolto rapidamente dalle tempeste valutarie. Uguali perplessità solleva quello, più pessimista, dedicato agli Stati Uniti, fermo alla perdurante controversia tra apologeti conservatori del modello americano e critici liberai delle difficoltà interne dell'ultima superpotenza.
Ma al di là dei limiti dei singoli particolari del grande affresco tracciato da Kennedy, l'interesse del libro sta nell'insolita visione d'insieme che offre. Le conclusioni di Kennedy suggeriscono che gli sviluppi economici e tecnologici tendono "a prospettare una spaccatura sempre crescente tra paesi ricchi e poveri". Tra i fattori che potranno limitare questa divaricazione l'autore insiste soprattutto sulla questione ambientale, suggerendo (e augurandosi) che il degrado ambientale e l'effetto serra "possano alfine obbligare i paesi sviluppati a comprendere il nesso esistente tra gli sviluppi demografici, ambientali e tecnologici, e ad aiutare i loro cugini poveri".
Sarebbe troppo chiedere a questo libro di spiegare che le contraddizioni che espone sono tutt'uno con l'ordine economico e politico mondiale, e che per "aiutare i cugini poveri" occorrerebbe innanzitutto smettere di celebrare i fasti dell'impresa e del mercato, della competizione economica e della potenza nazionale. Accontentiamoci di avere tra le mani un libro documentato e attuale che guarda alle contraddizioni da qui a trent'anni con lucidità analitica ed empirica freddezza: dovrebbero bastare le dimensioni dei problemi messi in luce a turbare i nostri sonni, visto che apparteniamo a quel "17 per cento della popolazione del pianeta che attualmente possiede i cinque sesti della sua ricchezza".

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