Sul sodalizio poetico e amoroso tra Verlaine e Rimbaud si è scritto molto: ogni biografia dell'uno o dell'altro non può non dilungarsi su questa congiunzione fatale. Il lettore italiano avrà trovato ampio materiale nei vari saggi su Rimbaud tradotti (più frequenti certamente di quelli su Verlaine): dalla vecchia e alquanto fantasiosa biografia di Starkie (che inventava il Rimbaud mercante di schiavi) al serissimo testo di Graham Robb (Rimbaud, Carocci, 2002) sino alla piacevole quanto accurata prova di Edmund White, La doppia vita di Rimbaud (minimum fax, 2009). Tali precedenti non rendono superflua Una sconosciuta moralità, lente ancora più esaustiva su quello straordinario incontro, avvenuto nel 1871 tra il precoce genio di Charleville e il già affermato Verlaine. Invano si cercherebbe una nota, una postilla lungo le centotrenta pagine di trattazione: Marcenaro indulge al piacere del mero racconto, ma a ogni riga si avverte la sicura sapienza delle fonti. Sapienza che si rivela nelle attente ipotesi sulla scomparsa ed emersione di diversi manoscritti rimbaldiani, nella preziosa iconografia che percorre tutto il volume e soprattutto nelle restanti duecento pagine, Il dossier di Bruxelles, certosina ricostruzione di tutta la documentazione del processo che portò alla sbarra Verlaine per il famoso colpo di pistola che ferì al polso Rimbaud. Ed è proprio in uno dei vari bollettini di informazione poliziesca che, al decimo e ultimo quesito "Quale è la sua moralità?", Verlaine risponde da par suo "inconnue", sconosciuta. Era fatale che la coppia di poeti, con le sue stravaganze e innocue provocazioni, dovesse prima o poi cadere nelle reti di un'occhiuta quanto miope giustizia. E certo non fu per una pistolettata in stato di sovreccitazione da alcol che il giudice t'Serstevens (personaggio magnificamente riesumato da Marcenaro) sancì i due anni di prigione per Verlaine: surrettiziamente la sproporzionata condanna puniva sia quegli sconcertanti rapporti "contro natura" rilevati da certe lettere sequestrate (rapporti sempre negati in istruttoria dagli interessati), sia altri eventi via via filtrati da Parigi: l'abbandono della giovane Mme Verlaine con l'infante in fasce per fuggire con il Veggente diciasettenne e una, peraltro marginale, partecipazione alla Comune. Marcenaro osserva giustamente che nomi come quello del giudice t'Serstevens o dei poeti del Circle Zutique o dei letterati effigiati nella grande tela di Fantin-Latour oggi si ricordano soltanto per l'occasionale tangenza con i due imbarazzanti girovaghi. Del resto, l'intrattabilità e i sarcasmi incendiari di Rimbaud (contro la borghesia tout court, gli ambienti artistici, la persistenza del verso alessandrino) avevano nuociuto ai rapporti, inizialmente ben disposti, con confrères più affermati quali Théodore de Banville, Coppée e Cros. Di certo, mancò qualsiasi incontro decisivo: Baudelaire era già passato nel cielo delle Muse; con Mallarmé (elettivamente il più vicino) nessun contatto; dal vecchio Hugo solo un mitico buffetto al poeta adolescente. Quasi esemplare per franchezza il rigetto di Edmond de Goncourt (non poeta, ma arbiter della cultura parigina) che paragonò la mano di Rimbaud (definito "perversione incarnata") a quella dell'assassino Dumollard. La refrattarietà ai milieux letterari parigini e la fuga da Mme Verlaine generarono, tra il 1872 e il 1873, i vari soggiorni a Londra e Bruxelles con episodici ritorni a Parigi e Charleville: di quell'"amore tigresco" (l'aggettivo è di Verlaine) il puntuale biografo narra tutti le liti, separazioni e riconciliazioni, coltellate e lettere struggenti ("Per Paul e Arthur litigare è come respirare"). Sullo sfondo, città grigiastre e piovose, stanzacce d'albergo, precarietà economica. Scarcerato e ormai neo-convertito, Verlaine incontrerà per l'ultima volta, nel 1875 a Stoccarda, Rimbaud che gli affida il manoscritto delle Illuminations e si conferma il più forte: "Verlaine è arrivato qui con un rosario tra le grinfie
Tre ore dopo avevamo rinnegato il suo dio e fatto sanguinare le novantotto piaghe di N.S. È rimasto per due giorni e mezzo molto ragionevole e alle mie rimostranze se ne è tornato a Parigi". Diversi i destini: Rimbaud, si sa, viaggia per mezzo mondo, non scrive più un verso, in Africa fa il mercante e, malato di cancro e amputato di una gamba, torna a Charleville per morire tra le braccia di una sorella preoccupata di simulare un'improbabile conversione. Da allora non si contano le appropriazioni del mito del Voyant. Invece, a Parigi, il poeta delle Fêtes galantes ricuce i rapporti con gli hommes de lettres, gode di riconoscimenti europei, si consola quotidianamente con l'assenzio, muore nel 1896 cinque anni dopo Rimbaud. Intorno al 1880, quasi contemporaneamente alle poesie di Sagesse, Verlaine aveva scritto un singolare e breve saggio (ispirato "al più ardente amor di patria") uscito postumo nel 1907, il Viaggio in Francia di un francese che merita all'autore quel soprannome di "Loyola" affibbiatogli da Rimbaud. Nel pamphlet (solo ora tradotto in italiano, con una bella prefazione di Giancarlo Pontiggia) si rimpiange la vieille France monarchica e cattolica, arcaica e agreste (quella di Jeanne d'Arc) rovinata nei secoli da individui, correnti ed eventi che si chiamano umanesimo, Rinascimento, Riforma, anti-gesuitismo, giansenismo, Pascal ("pazzo di genio e uomo malvagio"), Philosophes ("oscena letteratura"), Rivoluzioni, '89 ma anche '48 ("anno di follia"), Napoleone ("parvenu carico d'odio"), concordato, Suffragio universale, Comune, Internazionale. Curiosamente, nella produzione di Verlaine il Viaggio, concentrato di idee oltranziste, resta isolato: quasi fosse stato una necessaria prova di forza, un'espiazione o un engagement per il neo-convertito ancora incline a vecchi cedimenti. In tutte le prose successive (l'apice sono forse le Confessions, 1895) nulla resta di toni ideologici, meno che mai stentorei. Il pamphlet deve certe suggestioni all'"immenso" Joseph de Maistre e a Barbey d'Aurevilly e anticipa di pochi anni la libellistica ultra-cattolica di Léon Bloy. Lucido ed estremo nelle sue analisi, perde colpi quando l'invettiva cede alla predicazione (La domenica francese; A mio figlio); diventa un imbarazzato altalenare di accuse morali e lodi del talento nel conclusivo I romanzieri d'oggi e la religione. Duro infatti per l'improvvisato ideologo azzardare "amarezza intensa" e "noia di piombo" per l'opera di Zola, di Goncourt, soprattutto di Flaubert: la voce verlainiana che addita le corruzioni del naturalismo è tremebonda e capziosa. Un disprezzo senza sconti va solo al povero Daudet (complice un'antica ruggine), anticipando così i prossimi affondi di Bloy. Nella non celata simpatia per il più rivoluzionario tra tutti, Jules Vallès, sentiamo invece che a Verlaine la veste censoria stava anche stretta. Carlo Lauro
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