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Una poesia che da subito si offre magmatica, densa, scavata, lontana da qualsiasi leggerezza o ironia. Di non facile e immediata decifrazione, anche se non ermetica; vibrante di un'ansia controllata, tesa in un dolore reso esplicito da immagini violente, da ricorrenti motivi di accesa aggressività, di sconvolgente sopraffazione. Il volume è diviso in quattro sezioni dedicate agli elementi empedoclei, e tutti individuati nella loro sovrumana forza distruttiva, impetuosa. Così per l'acqua il simbolo prescelto è ovviamente il mare, vissuto soprattutto come minaccia nei suoi insondabili abissi o sulla superficie popolata da presenze animali e vegetali specificate con una precisa terminologia biologica, chimica, climatologica. Il fuoco, poi, è cenere e vento, distruzione e annientamento in una sezione in cui la natura non è mai sollievo o consolazione ("il gelsomino/colma di fango tenebroso/le corolle", "i sassi/trasportati dai vermi/nella bocca). Il capitolo più corposo del volume è dedicato alla terra, alla concretezza della storia che invade e violenta la vita dei singoli, distorcendone i percorsi esistenziali, distribuendo macerie e lutti: immagini forti che dipingono scenari ancora una volta drammatici, da declamare con un alto senso della denuncia civile. Lo stile si adegua ai contenuti, ignorando provocatoriamente qualsiasi collaudata tradizione letteraria: quindi versi lunghi o lungissimi, alternati a quinari incisivi e asseverativi, con frequentissimi enjambements, spezzature, interruzioni, ripetizioni, privi di rime o assonanze, indifferenti a ogni rigidità metrica. Una scrittura personalissima che non conosce tregue o cedimenti, imperativa, forte; nemmeno la sezione finale, dedicata all'aria, si addolcisce in una volatile o delicata armonia, ma rimane concretamente realistica anche nel tratteggiare due personaggi simbolo di spiritualità e sensibilità: Teresa d'Avila e Chopin.
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