Se la vita potesse essere veramente consegnata a uno sguardo e questo essere fissato in tutta la sua profondità da una lastra fotosensibile, allora davvero significherebbe che la fotografia è in grado di restituirci la realtà e le istantanee, i suoi frammenti. Le immagini invece narrano, documentandolo, l'incontro tra individui ‒ o elementi diversi della realtà ‒ e un meccanismo, prima fotochimico oggi elettromagnetico, governato dall'occhio di un altro essere umano. È per questa ragione che, sfogliando e risfogliando i materiali di un archivio ritroviamo (o pensiamo di ritrovare?) sempre nuovi dettagli, eco di flebili racconti, che riteniamo vadano raccolti e interpretati. È paradossale che ritratti realizzati in forma seriale, che in altri contesti susciterebbero solo scarsa attenzione se non noia, per il solo fatto di recare in modo evidente impresso in un angolo il timbro di un'autorità di polizia, finiscano per farci percepire, vedere e forse anche vivere emozioni sensoriali diverse. Queste sono destinate a crescere in modo esponenziale se scopriamo esserci alle spalle non una semplice storia criminale (e anche qui ci sarebbe da fare molti distinguo), ma tutta la violenza di una persecuzione di massa contro persone di una determinata etnia, di una certa religione, di idee diverse da quelle propugnate dal potere istituzionale: uno dei tanti eventi che hanno caratterizzato la storia dell'Ottocento e soprattutto del Novecento. A queste vicende la fotografia, tecnica messa a punto poco meno di due secoli fa, ha fatto da solerte testimone, con tutta l'ambiguità delle immagini che essa è stata fin dal principio capace di produrre. La storia fotografica delle vittime del Grande terrore staliniano fucilate tra l'agosto 1937 e l'ottobre 1938 a Butovo, nella periferia di Mosca, proposta da Marta Dell'Asta e Lucetta Scaraffia, con contributi di Lidija Golovkova e Oddone Camerana, offre uno straordinario contributo a riflettere su tali questioni e sul ruolo innovativo che le immagini possono svolgere nel lavoro storiografico. A questo proposito è utile ricordare che le 150 fotografie che il volume presenta "sono una piccola ma preziosa testimonianza delle 20.765 persone fucilate e seppellite nel poligono di Butovo" durante quei quindici mesi. Un campione non rappresentativo ma "frutto di una scelta" che ha volutamente escluso le vittime "eccellenti", tentando invece di rappresentare i "filoni" del terrore: "Quello nazionale (tedeschi, polacchi, lettoni, cinesi), quello religioso (vescovi, preti, monaci, diaconi, sacrestani) e quello sociale (nobili, mendicanti, ragazzi di strada, invalidi)". Sul piano metodologico vanno tuttavia richiamati i criteri generali a cui si sta ampiamente ispirando tutto il gigantesco e non facile lavoro di restituzione della memoria delle vittime dello stalinismo: le cifre, pur apparendo spaventose, sono astratte, fin anche sterili e destinate all'oblio; chiamare invece tutti per nome, dare un volto, un luogo e una data di morte (tutto ciò che sostanzialmente ogni assolutismo totalitario ha sempre voluto negare alle sue vittime) significa restituire concretezza alle singole persone e, al tempo stesso, vuol dire scrivere anche in modo assai diverso (con immagini e banche dati, ad esempio) l'intera storia di quel periodo. Adolfo Mignemi
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