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Farneticazione indigeribile scritta in una lingua involuta ai limiti dell'incomprensibile, inutilmente compiaciuta della propria intelligenza. Non è un saggio, non è un romanzo, non è poesia. Alla fine di una lettura noiosa (di quelle che inducono nella tentazione di piantarla lì) uno si accorge di non aver avuto piacere nella lettura e di non avere imparato niente. In una parola di aver perso tempo.
Il non-romanzo di Genna mostra due non-personaggi, agiti, loro malgrado, da un vuoto pneumatico: uno a massacrare esseri umani in nome di una legge solo sua e anche del neonazismo, l'altro a non-raccontare il mostruoso dell'umano mostrando le sue nevrosi sempre quasi suicidarie. Uno è Anders Behring Breivik, l'altro è la voce non-narrante di un giornalista che del fattaccio sull'isola Utøya deve mostrare uno spionaggio, un thriller, qualcosa di leggibile e commercializzabile, insomma. La voce come oggetto, come niente, come sguardo, come stacco dal corpo. Come fossile. S'impone di scrivere una storia di questo non-personaggio giornalista che sempre vede e mostra dall'alto le tracce del pianeta terra: dalla torre Galfa o da un aereo verso la Norvegia. E mostra Milano, la sua generazione tossica, sua del giornalista. Uno sguardo profondamente poetico che smette il racconto e intavola un progetto di pregressione all'esoterrestre. Niente può giustificare un'azione tanto esecrabile, nessun trauma. Eppure si può pensare a una declinazione psicotica dell'intero reale, privo di sintomi, e dunque senza scrittura, non c'è scrittura senza sofferenza, dove il luogo che agisce primordiale l'atto nazista e quello scrittorio, non esiste più, è forcluso. L'inconscio non c'è più. C'è un buco, un vuoto. Quel vuoto intersiderale dove fiori crescono in balia di un film interiore che ci fa credere ancora. Credere? Cosa? Nulla. La poesia di Genna, tra la provinciale di elenchi in periferie lombarde e immense strade ultranordiche, ci accompagna e studia il modo di farla finita per sempre con il giudizio di un racconto. Con il mostruoso che non si può mostrare. Non che questo sia solo un non-romanzo, o solo una non-inchiesta, non che non si dica qualcosa di vero intorno all'impossibile, ovvero il reale. Perché, infatti, si può a tratti percepire il gioco alieno della scrittura burroughsiana di Nova Express...
La vita umana sul pianeta Terra conferma la capacità di Giuseppe Genna di andare oltre, confezionando un'opera difficilmente etichettabile: inserita tra i romanzi, in realtà la narrazione pura e semplice, in queste pagine, scarseggia di proposito (per quanto se ne possa dispiacere l'editore, che avrebbe preferito una classica spy story). L'intento della copertina, raffigurante Anders Behring Breivik, è di far emergere dai flutti dell'oblio il racconto della strage di Oslo e Utoya, da lui messa a punto nel 2011; nelle pagine dell'autore, questa tragedia causata non dal male assoluto, ma dal vuoto supremo, è un pretesto per illustrare il degrado della società, tanto a Berlino (illuminante è il discorso ai giovani che studiano da squali) quanto a Milano, dove si ha la sensazione che anche le persone omologate, proprio come i reietti e i tossicodipendenti, non abbiano futuro. La rilevanza inopinabile della strage, progettata da un uomo che fino a pochi anni prima difendeva i compagni dai bulli, viene a tratti quasi oscurata dalla corpulenza delle riflessioni metafisiche dell'autore, costretto a evidenziare la marcescenza di intere generazioni. Non è un libro per persone disperatamente ottimiste e forse non piacerà a chi ha letto solo i romanzi noir di Genna, ma offre la possibilità di approcciare la personalità e la filosofia dell'autore, in modo meno totalitario di quanto possa fare Italia De Profundis.
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