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“Vite sbarrate” è una sorta di interrogatorio, un fuoco incrociato rivolto a due esperti a vario titolo di una delicata questione. Nasce così, quasi in modo spontaneo, un dialogo con lodevoli intendimenti su un argomento triste, disperato e disperante, che comunque interessa noi tutti come società: il carcere. Luogo di reclusione, istituto dove vengono rinchiusi i rei di qualche grave delitto non sanzionabile altrimenti. Inteso come da dettato costituzionale come istituzione volta non già a punire, ma a rieducare il reo, renderlo consapevole di quanto fatto, così da redimersi, e reinserirlo nella società. La funzionalità, l’efficienza e la qualità di un luogo di pena è sicuro indicatore della capacità riabilitativa, della qualità morale e civile del Paese dove funzionano. Le intenzioni sono buone, le indicazioni della Carta suprema sono chiare e all’avanguardia; differente è invece lo stato di fatto, considerando come è concepito, strutturato e organizzato in pratica nel nostro Paese. Essenzialmente, come un luogo dove abbondano le sbarre; non solo in senso fisico, ciò che è sprangato, precluso, impedito dalle strutture inadeguate e insufficienti, è qualsiasi progetto di riabilitazione, di riscatto, di rinascita e redenzione, dietro le sbarre non si rinchiudono persone colpevoli o meno, ma la speranza. La madre di ogni recupero. Tanto emerge dal confronto tra un sacerdote, Don Dario Ciani, da decenni cappellano in carcere, colui che in carcere tocca per mano il Cristo sofferente che davvero sta in croce, e ci prova, fa del suo meglio, aiuta, soccorre, mitiga, conforta, anche si indigna e si arrabbia; ed un giudice, Michele Leoni, presidente di sezione in Tribunale, un valente magistrato che ogni giorno svolge al meglio il suo compito, con scienza, coscienza, solidarietà ed empatia, conscio di quanto sia difficile, ingrato, gravoso il peso delicatissimo di decidere della libertà personale di chi gli viene condotto davanti.
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