Inoltrarsi nelle pagine che Renate Siebert dedica a una rilettura critica e appassionata del pensiero e delle opere di due intellettuali postcoloniali come Frantz Fanon e Assia Djebar significa intraprendere un viaggio alla ricerca di un senso della direzione del mondo fra i meandri più oscuri della modernità. Una modernità scomoda, ambigua, oscena nella presunzione di riuscire a occultare le proprie contraddizioni, rimuovendole chirurgicamente o semplicemente sbarazzandosene, quasi fossero residui da confinare in un passato ormai definitivamente concluso. Quella modernità tragica ammantata di narcisismo e di violenza che nelle società coloniali e neocoloniali ha avuto modo di impiantare le sue strutture di potere, consegnandoci un'eredità mortifera in cui imperialismo, colonialismo e razzismo vivono di rinnovate connessioni e afflati reciproci. Ritornando, dopo quarant'anni dal suo primo lavoro, al pensiero di Fanon, psichiatra di origine martinicana e intellettuale militante che, giovanissimo, adotta l'Algeria come patria d'elezione, Renate Siebert ci conduce per mano a esplorare la potenza e l'attualità della sua analisi. Un'analisi, per molti versi visionaria, delle strutture intrinsecamente violente delle società coloniali e neocoloniali e dell'esperienza dell'alienazione e del razzismo vissute, come ci ricorda l'autrice, "letteralmente sulla propria pelle". L'Algeria conquistata dai francesi, che ha dato avvio a quel sistema duale basato sulla contrapposizione fra colonizzatori e colonizzati, e l'Algeria della lotta di liberazione dall'oppressione costituiscono lo scenario entro cui Fanon denuncia e osserva le sofferenze inscritte nei corpi e nelle menti dei suoi pazienti, evidenziando, al contempo, le forme di resistenza e le pratiche di contro-violenza liberatoria praticate dagli stessi colonizzati. Gli eventi politici e sociali a cui Fanon fa riferimento disegnano ferite destinate a riemergere, sanguinanti, nelle violenze atroci della guerra civile degli anni novanta in Algeria a cui Assia Djebar estende il suo sguardo: attonito e tragicamente, appassionatamente, poetico. Romanziera, saggista e cineasta, dopo aver trascorso l'infanzia e parte dell'età adulta in Algeria, Assia Djebar diviene, per scelta, una femme en marche ben prima che l'islamismo integralista, intransigente e retrogrado consegni definitivamente all'oscurità un paese che aveva visto da sempre convivere al proprio interno lingue, culture, esperienze umane diverse. E Renate Siebert, grazie anche alla sua frequentazione e amicizia con l'intellettuale algerina, ci consente di conoscere Djebar quasi intimamente, ricostruendo la trama sottile della sua biografia e del suo percorso artistico e intellettuale come un ricamo che si intreccia con le storie di sfondo che compongono lo scenario entro cui la Storia accade. Uniti da una comune sensibilità umana e artistica e dotati di una profonda capacità di osservare, cogliere, ascoltare le voci, ma, soprattutto, i silenzi dei soggetti tacitati dalla Storia gli indigeni, gli sfruttati, i colonizzati, le donne, i soggetti subalterni Fanon e Djebar ci aiutano oggi a comprendere come fenomeni generati dal fatto coloniale (e il razzismo e il sessismo ne sono le manifestazioni più drammatiche) si siano protratti, rinnovati, nel nostro presente. L'inferiorizzazione delle popolazioni sottomesse, attraverso i dispositivi della razzizzazione, che ieri aveva fornito una legittimazione allo sfruttamento coloniale, ritorna nelle esperienze dei migranti globali di oggi. Disumanizzati, ridotti talvolta a sagome da cui viene estirpata la caratteristica di "persone", uomini e donne che arrivano dai paesi del Sud del mondo mobilitano meccanismi di difesa che oscuramente ci rammentano quel passato collettivo represso che non vogliamo affrontare. La riluttanza a ritornare sulla memoria coloniale e su quella nazi-fascista e i processi di rimozione attuati nei confronti dei crimini commessi in virtù di una presunta superiorità razziale rappresentano, come denuncia l'autrice, "un terreno fertile per politiche discriminatorie e per misure razziste nel presente". Da qui anche quella sorta di anestesia culturale e di indifferenza pubblica che le drammatiche storie dei migranti che giungono nel nostro paese, in fuga da violenze e conflitti, incredibilmente suscitano tuttora. Ma le dimensioni plurime della violenza coloniale si esprimono anche in forme immateriali, simboliche, attraverso la costruzione di immagini degradanti, rappresentazioni subdole e, al contempo, emblematiche dell'altro, dell'altra. Le donne si trovano al centro di questa costellazione: doppiamente oppresse dal sistema coloniale e dalla famiglia patriarcale si vedono private della propria soggettività. In un paese travolto dalle derive autoritarie e dal vortice islamista che ha trasformato "le vittime di ieri nei carnefici di oggi", le donne algerine sono destinate a rimanere recluse all'interno di quella colonia interiore che sposta il conflitto dal nemico esterno il colonizzatore al nemico interno, intimo: il marito, il padre, il fratello. Sono le donne protagoniste dei romanzi e del cinema di Assia Djebar che, utilizzando uno stile narrativo denso di continui passaggi fra memoria storica e memoria autobiografica, ci consentono di sviscerare i legami profondi che legano "l'esperienza collettiva all'elaborazione individuale degli avvenimenti". Donne che portano nel corpo i segni delle ferite e dei lutti inferti dal colonialismo e dalla guerra civile; donne disperatamente vitali pur nella reclusione dell'harem domestico o di quell'harem invisibile, interiore che si porta, come sottolinea Fatima Mernissi, "scolpito sotto la fronte e sotto la pelle"; donne appassionate che amano, pagando in prima persona la rottura dei tabù che la società algerina liberata riceve in eredità da un passato mai definitivamente concluso; donne-sorelle che tentano tragicamente/coraggiosamente di scrivere una contro-storia femminile del proprio paese. Il recupero della memoria rimossa, ferita, cancellata dalla dominazione coloniale e dalla violenza successiva e la consapevolezza profonda che i processi di cambiamento delle strutture e delle istituzioni sociali debbano necessariamente investire la quotidianità e le relazioni fra le persone costituiscono i fondamenti di un metodo che sia Djebar che Fanon elaborano a partire dalla loro esperienza e, verrebbe da dire, dalla loro vita. L'utilità della loro parola nel cercare di estirpare, come scrive Sartre nell'introduzione a Les damnés de la terre, "il colono che è in ciascuno di noi" è estremamente attuale. Siebert sottolinea con forza, nelle riflessioni conclusive, come per poter decolonizzare la nostra mente e finalmente confrontarci con la nostra alienazione occorra disimparare quella zavorra carica di senso comune degenerato che alimenta stereotipi e pregiudizi, lavorando innanzitutto su noi stessi, interrogandoci. Una strada indubbiamente non facile, che implica un andare controcorrente, sovvertendo quelle mappe cognitive distorte nei confronti degli altri variamente intesi ‒ che sono il segno tangibile della nostra alienazione. Ma, accompagnandoci con mano ferma attraverso i percorsi delle memorie rimosse e degli effetti venefici sulla nostra contemporaneità, il libro di Siebert ci offre un talismano che ci consente di intravedere un'altra, possibile declinazione della modernità. Monica Massari
Leggi di più
Leggi di meno