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È stata data alle stampe la traduzione del romanzo di esordio (1994) del turco-cipriota Mehmet Yashin, una delle voci più affascinanti nel panorama della letteratura di lingua turca. Le sue poesie avevano già visto la luce in italiano con l'uscita de Il drago ha anche le ali (Argo, 2008). Nato nel 1958, cresciuto in un quartiere cosmopolita di Nicosia, emigrato in Grecia e poi in Inghilterra dopo essere stato espulso dal regime militare turco nel 1986 (potrà ritornare nel 1993), lo scrittore ha vissuto sulla sua pelle e quella della propria famiglia, trucidata o deportata, il trauma dei fatti del 1963, quando greci e turchi smisero di vivere pacificamente come avevano fatto per secoli sull'isola di Cipro. Il libro in questione sfida le definizioni, è un "non romanzo". Da qui il senso di vuoto, di frustrazione, di mancato coinvolgimento che il lettore prova quasi a ogni pagina. Il libro si divide in due parti, che il ricco apparato paratestuale ci dice sono da considerarsi rapporti (giornalistici o della polizia?), i cui incipit corrispondono a un'impossibilità ("Se almeno potessi ricordare il punto di inizio di questa storia ") o a un rifiuto ("Non avevo nessuna voglia di scrivere questo racconto, io"). Il set il libro nella prima parte vuole essere proprio un copione cinematografico è la Istanbul cosmopolita e multietnica negli anni del conflitto greco-turco, dove vediamo girovagare un gruppo di personaggi joyciani, quasi tutti dalla nazionalità ibrida e in crisi identitaria: un turco-israeliano (Michel-Memet Oskar: autore-redattore della seconda parte), un turco-cipriota (Mehmet Yashin: autore-redattore della prima parte), una turco-francese (l'attrice Deniz), un greco-istanbuliota (il giornalista Aleksandros), un inglese (il regista James). Se la nazionalità dei personaggi è ibrida, altrettanto lo è la lingua usata, il turco, contaminata da greco e inglese. Si direbbe che il libro di Yashin non solo si rifiuti di essere un romanzo ma si rifiuti di essere qualcosa di definito in assoluto. C'è una spietata negazione della finzione, cioè di un mondo immaginato, fittizio, inventato, dentro il quale il lettore possa entrare adagiandosi e con il quale possa passivamente identificarsi. Così come c'è la negazione di una "realtà" nazionale all'interno della quale un individuo possa fare quelle cose che il lettore di un romanzo fa nel mondo inventato. Nel libro tutto ciò che mira alla costruzione, alla difesa, alla retorica della nazionalità è costantemente e ostinatamente decostruito. Anche e soprattutto quando si tratta della spinosa questione israelo-palestinese, che all'interno dell'opera fa da gigantesco specchio a quella greco-turca. Ecco allora che, se non può esistere una narrazione nazionale credibile e sostenibile, allo stesso modo non può esistere una narrazione finzionale altrettanto credibile e sostenibile: la forma del romanzo si adegua mimeticamente alla forma delle idee dell'autore, impegnato nell'esercizio anti-integralista della non-appartenenza. A un certo punto il personaggio-scrittore Michel-Memet dichiara: "Scrivo storie irreali che raccontano a persone irreali la vita irreale in un luogo irreale con una lingua irreale di una nazione che in realtà non esiste". La nazionalità non esiste e se la si impone per creare unità questa cresce in uno spazio desertico. In visita a un monastero abbandonato, uno dei personaggi chiede: "Dov'è la gente del posto? Questo accade quando i turchi e i greci diventano una nazione! Sei costretto ad emigrare come una sorta di gregge per costruire frontiere fittizie! Unità nazionale! Ecco hanno l'unità ma qui non è rimasta vita". La stessa sensazione che il lettore avverte appena finisce di leggere questo non romanzo. Luigi Cazzato
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