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Gran bel libro, la scrittura di Barakat è semplice e tagliente, riesce con poco a mettere a nudo ciò che passa in quella terra martoriata ; vero quando i signori della guerra si ritrovano a dover fare i conti con la pace perdono la forza e nel proseguire della loro vita si sentiranno sempre orfani: allora meglio imbavagliarli in tempo!
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In un'intervista del 2006, Elias Khuri rilevava come prima della guerra civile del 1975 non esistesse una letteratura che raccontasse le guerre civili che, nel corso di un secolo, avevano funestato il Libano. Fu in quel momento che gli intellettuali libanesi uscirono da uno stato che potremmo definire di amnesia nazionale e che, scrivendone, cominciarono a liberarsi del male che il conflitto aveva generato.
Ne è testimonianza Ya Salam! di Najwa Barakat, nata a Beirut ma residente a Parigi dal 1985, dove lavora come giornalista. Ciò di cui il romanzo vuole dare conto è però un "tempo di decadenza, di schifo, di truffe, di saccheggi, di inganni, di bugie, di imbrogli, di apparenze", che è, paradossalmente, il tempo della pace nella quale gli ormai decaduti signori della guerra faticano a sopravvivere. Ne risulta un libro in cui ogni visione manicheistica sembrerebbe inderogabilmente abbattuta: vi ritroviamo infatti una Beirut (città, peraltro, mai esplicitamente nominata) che viene restituita come un inferno che non contempla alcuna possibilità di redenzione, i cui abitanti, tutti indistintamente vittime della pace, sono impegnati in un guazzabuglio di rapporti umani caratterizzati da un cinismo che è tanto più esilarante quanto più diventa feroce.
Protagonista è Luqman, trafficante d'armi esperto in esplosivi, cui la guerra aveva assicurato prestigio, potere e disponibilità di denaro e di donne. Attorno a lui gravitano, tra gli altri, due ex miliziani: l'Albino, tra i più spietati torturatori, e Najib, "cecchino di grande talento", internato per loschi compromessi in un ospedale psichiatrico dal quale uscirà per fondare insieme a Luqman un'impresa di derattizzazione: sono da rilevare, a tal proposito, i continui riferimenti a una qualche corrispondenza tra gli uomini e i ratti, quando è vero che "solo due tipi di esseri viventi fanno la guerra a elementi della propria specie: il ratto e l'uomo. Entrambi sono inutili agli altri esseri viventi e distruggono ogni forma di vita". Così come interessante è un tema di assidua frequentazione in certa letteratura libanese (pensiamo ai libri di Hoda Barakat, sorella dell'autrice e scrittrice affermata anche in Europa), quello della malattia mentale, quasi che la guerra avesse provocato un'epidemia di patologie psichiatriche.
A libro chiuso, ciò che pare di capire è che i libanesi siano ridotti alla stessa stregua di ratti impazziti costretti a vivere chiusi in una scatola angusta, senza vie d'uscita, finendo per distruggersi l'uno con l'altro: è questo l'epilogo del romanzo, una sorta di implosione della società libanese. D'altra parte: "Cosa ci si può aspettare da un popolo che non piange più i propri morti? Che speranza ha un paese che spende delle fortune per cose inutili e poi lesina al suo dolore le manifestazioni di rispetto e gloria?". Un paese, aggiunge l'autrice, "che non ha rispetto per la sua Storia": una dichiarazione, questa, di scottante attualità e che non può che essere avvalorata dai recenti fatti accaduti in Libano (ma lo stesso potrebbe dirsi di molti altri posti al mondo), dove i criminali di guerra concorrono a una carriera politica nuova fiammante. Silvia Lutzoni
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