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Il libro è molto ironico e particolare nella sua stesura, infatti è composto da novanta microstorie. Anche se non rientra nel genere di libri che preferisco, a causa dell'argomento trattato, ovvero il calcio, sport che non mi entusiasma particolarmente, ho apprezzato lo stile dell'autore, divertendomi in modo particolare leggendo il primo aneddoto. Libro da consigliare a chi si vuole divertire in?poche righe.
Il libro è molto interessante e affascinante. Mi ha colpito soprattutto il racconto numero 10 dove lo scrittore racconta del suo viaggio a Monaco con il figlio. Il ritmo all'inizio è un po' lento poi il tutto si fa molto avvincente. Dall'ansia iniziale si passa alla risata finale.
Addio al calcio è stato per me un libro molto particolare per la costruzione (geniale) dei vari capitoli paragonati ai minuti di una partita di calcio. Lo consiglio caldamente agli amanti del calcio e delle storie brevi e particolari. E non solo...
Recensioni
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Con il procedere, nel corso degli anni, della scrittura di Valerio Magrelli, appare sempre più chiaro quanto tra gli elementi più intimi e radicali del suo discorso poetico ci sia un continuo tentativo di mediazione tra ordine e caos; tra il caos di un nucleo vitale, di un materiale linguistico estremamente plastico e metamorfico, e un ordine, una "scatola" in grado ogni volta di contenerlo.
Nel tempo, molti sono stati i "contenitori", moltissime le strategie di equilibrio messe in atto da Magrelli, così come altrettante sono state le spinte di rottura. Da Ora serrata retinae (Feltrinelli, 1980) in cui l'argine era interno al verso stesso, iscritto sotto il segno di una parola dal forte controllo stilistico, fino ad arrivare al Violino di Frankenstein (Le Lettere, 2010), organismo testuale "esploso" in un libro e tre cd musicali, il discorso di Magrelli si è sempre mosso tra due polarità quasi opposte, sperimentando via via diverse soluzioni, aprendo e chiudendo paratie, tentando ogni volta di opporre griglie rigide, schemi, impalcature di fronte alla continua ed evidente tracimazione di un linguaggio alla ricerca di forme testuali sempre più ibride, in bilico tra prosa e verso, in una parola, "anfibie".
Non da ultimo, Addio al calcio, raccolta di novanta brevi prose calcistiche suddivise in due "tempi" che, con il suo forte schema mimetico, sembra offrire la presenza ancora una volta di una doppia direzione, o perlomeno di un nuovo tentativo di addomesticamento, di vera e propria segmentazione della parola all'interno di una griglia che ne contenga e ne ordini il senso. La griglia, la "scatola", in questo caso è una partita di calcio. Ogni brano è un minuto di gioco. Al quarantacinquesimo l'intervallo. Al novantesimo il fischio di chiusura. Così come in Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, 1999), in cui ogni poesia della raccolta corrispondeva alla rubrica di un quotidiano, anche per Addio al calcio il rapporto tra contenitore e contenuto, tra materiale e forma si fonda sulla costruzione di uno spazio arbitrario, di una macrostruttura non più legata a uno schema tradizionale, ma perfettamente aderente al nucleo tematico contenuto al suo interno. Proprio come le strisciate di calce con cui la squadra del giovane giocatore Magrelli disegnava il campo nelle grandi occasioni, il limite è il gioco stesso. L'astrazione geometrica dello spazio e il "gesto" coincidono. Lo scandire dei minuti e la prosa del testo (una prosa dai chiari segni metamorfici, molto spesso incline alle sonorità del verso poetico) non sono che i due estremi, uguali e contrari, di un'unica sistole-diastole compositiva. Ma che tipo di calcio è quello giocato da Magrelli? Che cosa c'è tra le righe di gesso del suo personalissimo campo testuale?
Quello di Magrelli è un calcio prevalentemente della parola. Certo, la presenza materica del reale con tutte le sue caratteristiche tipicamente magrelliane è ancora fortemente presente. Il mondo, così come in Nature e venature (Mondadori, 1987), Esercizi di tiptologia (Mondadori, 1992), Nel condominio di carne (Einaudi, 2003; cfr. "L'Indice", 2003, n. 12), è ancora un mondo-corpo in cui gli oggetti possiedono il respiro dell'animale o la potenza salvifica del farmaco. Un universo composito, fatto di sostanze organico-inorganiche e apparecchi medicamentosi, abitato da muschi, licheni cresciuti nell'umidità degli spogliatoi, e da palloni di cuoio "pesanti, ortopedici" che "si gonfiavano conficcandoci dentro un ago gigantesco".
Ma in un'ambientazione, come quella sportiva, in cui l'immagine del gesto atletico dovrebbe prendere il sopravvento, la rappresentazione fisica dell'atto agonistico, la "partita", sembra essere qui sempre in secondo piano, relegata a un ambito fantasmatico di presenza-assenza mai del tutto risolto. Più che sul calcio in sé, Addio al calcio è un libro sulla dimensione auratica del calcio. Dimensione coglibile ogni volta soltanto di sbieco, mai frontalmente, come se il calcio di Magrelli fosse visibile, nella camera oscura del testo, essenzialmente come immagine in negativo, come impronta, traccia impressa sulla materia plastica del linguaggio. Da qui il virtuosismo letterario delle radiocronache anni trenta, l'arditezza metaforica degli slogan da stadio, gli epiteti formulaici riservati ai giocatori: Attilio Ferrari "il leone di Highbury", Rodolfo Volk "lo sciabolone". Da qui le zuffe da spogliatoio, i riti propiziatori, ma soprattutto il racconto di un calcio intimo, "privato": le domeniche al parco da bambino, i maglioni arrotolati su un prato per delimitare lo spazio della porta, un'Italia-Germania seguita insieme al padre, o meglio, urlata al padre, debole di cuore, chiuso dentro il bagno ("Dopo il secondo pareggio non ce la fece più e se ne andò via, lasciandomi da solo davanti alla televisione. Si chiuse in bagno. Così, per tutto il tempo, io lo chiamavo, e lui chiamava me, per conoscere cosa stava accedendo, per sapere cosa si stava perdendo").
Come dal figlio al padre, anche in Addio al calcio il gesto sportivo arriva al lettore da dietro una parete, ogni volta ricreato, riformulato dalla narrazione. Anche noi, come il padre di Magrelli, non abbiamo accesso diretto alla "visione". Dietro lo stipite della porta, assistiamo all'officiarsi del rito senza vederne mai l'immagine. Solo, e non è cosa da poco, a noi è concesso il "discorso", la parte di realtà filtrata della parola. Ciò che si è depositato sul fondo del bicchiere dopo essere passato tra le maglie sintattiche del ricordo. Quell'elemento, appunto, l'unico, in grado di fare di uno sport una leggenda.
Isabella Mattazzi
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