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L'interesse per l'irredentismo e per le "terre adriatiche", a cominciare da Trieste, è sempre stato centrale nella storiografia italiana e più in generale nell'opinione pubblica colta, anche durante la repubblica, quando il sentimento nazionale si è alquanto affievolito, se proprio non uscito dall'orizzonte comune. L'abbattimento del Muro di Berlino prima e la fine della Jugoslavia poi non potevano perciò che riaprire il dossier. Questo volume si ferma ben prima, certo, ma è partecipe di questo clima: in cui buona parte degli storici italiani, anche quando si sono occupati di ferite ancora aperte (le foibe), sono riusciti a raccontare e a interpretare con equilibrio, lungimiranza, capacità di riconoscere ragioni e torti degli italiani (e ovviamente degli slavi) senza riaccendere tentazioni nazionalistiche, pure assai presenti in una parte della storiografia ancora fino agli anni cinquanta.
Non a caso il volume menziona esplicitamente nel sottotitolo gli italiani e gli slavi. È infatti, quella raccontata da Riosa, una storia di Trieste e delle terre adriatiche in cui i due "popoli" sembravano convivere, certo con momenti di scontro e di incomprensione, ben narrati dall'autore, ma che non si avvicinavano neanche lontanamente agli episodi di violenza e vendetta che caratterizzarono dagli anni venti in poi quell'area. In ciò è implicito un giudizio equanime sulla dominazione asburgica, che non risultava così oppressiva come l'irredentismo italiano amava dipingerla, e per contro un ridimensionamento della portata dello stesso irredentismo negli anni a cavallo tra Otto e Novecento (si vedano le pagine dedicate a Oberdan e al suo mito). Studioso del socialismo italiano, Riosa non dimentica infatti che in quegli anni, tra le rivendicazioni irredentistiche e il dominio di Vienna, vi era una terza proposta, diremmo impropriamente "federalistica", di cui si facevano portatori i socialdemocratici austriaci (e a un alto livello teorico gli austromarxisti) e i più autorevoli socialisti italiani, come Leonida Bissolati: da qui le pagine dedicate al convegno socialista italo-austriaco di Trieste (1905).
La fonte principale si cui Riosa lavora è del tutto originale: sono le carte diplomatiche del consolato francese di stanza a Trieste. Un'intuizione fecondissima, perché permette allo storico di porsi da un punto di vista europeo scegliendo una posizione altra rispetto a quella degli archivi italiani o austriaci. La lente francese non è, ovviamente, neutra; e non può che essere così, essendo attivata da una potenza che, soprattutto nella Belle Époque, cercava di indebolire la Germania con una diplomazia parallela verso l'Austria e ancor più verso l'Italia, per le quali Trieste occupava un ruolo centrale.
Si respira leggendo queste pagine l'aria dello Chabod della Storia della politica estera italiana, un modello troppo in fretta abbandonato dalla storiografia italiana, dove storia diplomatica, politica e culturale si fondevano in un intreccio originale anche rispetto alle altre tradizioni di studio europee. E si respira, nella narrazione del periodo precedente lo scoppio della Grande guerra, un'atmosfera di armonia mitteleuropea (quasi alla Joseph Roth) che sarebbe stata spazzata via da lì a poco dall'avvento della violenza e del totalitarismo.
Marco Gervasoni
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