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L'8 marzo del 1866 gli austeri membri del direttivo della Societé Linguistique de Paris avevano diffidato i soci, con tanto di editto formale, dal presentare comunicazioni relative al problema dell'origine del linguaggio. La cosa può far sorridere ma, a distanza di quasi centocinquant'anni, un'eco remota di quell'editto probabilmente risuona nelle orecchie di linguisti e filosofi del linguaggio, visto il persistere di una certa riluttanza a cimentarsi col tema. E con ragioni non troppo diverse da quelle di allora: dati empirici estremamente scarni, carattere altamente speculativo di ogni ipotesi al riguardo, complicazioni legate alle differenti interpretazioni della teoria dell'evoluzione. Francesco Ferretti ha il coraggio di misurarsi con il problema. L'autore muove da una premessa condivisibile: che una spiegazione dell'origine del linguaggio, inteso come facoltà naturale specifica della nostra specie, possa e debba essere data all'interno di un quadro teorico darwiniano. Questo verosimilmente implica che il linguaggio sia un tratto selezionato dall'evoluzione che conferisce un vantaggio adattativo; in due parole, che il linguaggio sia un adattamento biologico. A dispetto della sua ragionevolezza, la premessa è tuttavia respinta dal più autorevole sostenitore di un approccio naturalistico allo studio del linguaggio: Noam Chomsky. Per Chomsky, infatti, la comparsa del linguaggio nella storia evolutiva è un fatto inspiegabile, al punto che in alcuni suoi scritti egli si spinge a dire che è incompatibile con l'evoluzione darwiniana, per nulla preoccupato dall'eventualità che ciò costituisca una reductio della sua teoria (come osserva Ferretti, se davvero c'è un conflitto tra il darwinismo e l'ipotesi della Grammatica Universale la teoria di Chomsky , allora tanto peggio per la Grammatica Universale). La ragione dell'inspiegabilità è, in parole povere, che la comparsa del linguaggio segna un salto di complessità che non può essere colmato dalla selezione naturale. Per Chomsky il linguaggio è verosimilmente comparso per "exattamento", esso è cioè un effetto collaterale della selezione di altri tratti, o di complesse modificazioni strutturali, quale ad esempio la crescita delle dimensioni del cervello, di cui sappiamo poco o nulla. Ora, la teoria dell'exattamento non è antidarwinista; essa può essere più appropriatamente considerata come un'integrazione recente del punto di vista evoluzionistico; nondimeno ben si comprende in che senso una spiegazione selezionista dell'origine del linguaggio sia molto più rassicurante: la selezione naturale è la spiegazione scientifica di gran lunga più plausibile (secondo molti, tra cui Richard Dawkins e Steven Pinker, l'unica spiegazione) della complessità adattativa. Per questa ragione Ferretti rovescia il ragionamento di Chomsky, cercando di far vedere che la complessità del linguaggio non implica, come invece ritiene il grande linguista statunitense, una radicale, cartesiana discontinuità tra la specie umana e le altre specie animali. In termini molto generali, l'idea di Ferretti è che le fasi iniziali della comunicazione umana siano rese possibili e governate da abilità e meccanismi cognitivi in grado di radicare fortemente gli organismi nell'ambiente in cui vivono. Il linguaggio vero e proprio si sviluppa gradualmente, con effetti retroattivi sul cervello e quindi sui meccanismi cognitivi (principio di "coevoluzione" del cervello e del linguaggio). Quali siano esattamente i meccanismi di pensiero che avviano questo processo viene discusso nei capitoli III e IV (che occupano più di metà del volume), nei quali Ferretti, da buon filosofo naturalista, combina abilmente ipotesi speculative e discussione di dati empirici. Lo snodo a mio giudizio più delicato del macchinario argomentativo di Ferretti è nel passaggio dalla questione della compatibilità tra Grammatica Universale e darwinismo alla proposta della coevoluzione, specificamente quando l'autore avanza la tesi secondo cui la comprensione richiede uno sforzo cognitivo. Qui infatti si scivola impercettibilmente da una nozione chomskiana di linguaggio, nel quale la grammatica svolge un ruolo enormemente preponderante, a una nozione che ne mette invece in primo piano la funzione comunicativa, in cui quello grammaticale è solo un aspetto tra gli altri, certo non il più importante. In effetti quando parliamo di "linguaggio" possiamo intendere diverse cose e, in un certo senso, in un'ottica naturalistica non esiste il linguaggio, ma soltanto certi sistemi che nel loro insieme ci rendono capaci di parlare e comprendere di comunicare, se si ritiene che quella comunicativa sia la funzione essenziale del linguaggio. Vien da chiedersi allora se, dopotutto, il problema di giustificare la tesi secondo cui il linguaggio è un adattamento biologico non sia stato risolto respingendo alcuni assunti centrali della teoria di Chomsky. Mossa del tutto legittima, beninteso, ma strategicamente diversiva rispetto a come il problema inizialmente era stato impostato: far vedere che Chomsky e Darwin possono andare d'accordo. Alfredo Paternoster
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