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Storia di spionaggio ambientata durante la seconda guerra mondiale ben interpretata da Brad Pitt e Marion Cottilard. Subito si inserisce nella trama la storia d’amore tra i 2 protagonisti, ma altrettanto immediata è la rottura di quella apparente tranquillità vissuta all’interno di una bolla surreale in mezzo ai bombardamenti. I colpi di scena mi hanno coinvolto fino all’ultima scena del film spingendomi a cercare di capire quanto fossero reali quei sorrisi o quanto spionaggio ci fosse ancora nascosto. Ne consiglio la visione.
Un bel film con una Marion Cotillard enigmatica e bella come non mai
Allied sembra un film d'altri tempi, ben girato, curato, elegante. Non avrebbe sfigurato in bianco&nero. Manca sicuramente un pò di ritmo, specie nella prima parte, che rischia di pregiudicarne la riuscita. Ad ogni modo Allied sa essere raffinato e convincente, anche grazie alla buona prova attoriale della coppia protagonista. Non è lo Zemeckis dei tempi migliori, dei grandi capolavori, tuttavia, nel nulla cinematografico generale, è un film che si lascia vedere. Alla luce di tutto ciò ve lo consiglio.
Recensioni
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L’entrata in scena di Brad Pitt, paracadutato con precisione fra le dune del deserto marocchino, giunge a chiosare la lunga serie di fantastici galleggiamenti aeriformi che la precedono: l’essere o non essere temporal-fotografico in Back to the Future, i cartoon di Chi ha incastrato Roger Rabbit che alla fine avvertono lo spettatore non c’è più niente da vedere, il volo della piuma in Forrest Gump, l’allontanamento dal sonoro terrestre fino al silenzio assoluto dello spazio profondo in Contact (siglato poco dopo a sua volta dal famoso impossibile piano-sequenza da dentro lo specchio), il sovrapporsi di zone liminari in What Lies Beneath, l’incrocio sospeso di strade in Cast Away (dove peraltro il concetto è già tutto racchiuso nel titolo), il volo del biglietto magico del treno magico in Polar Express, la ri-nascita dalle acque di Angelina Jolie in Beowulf, il volo digitale a scoprire la città nei titoli di testa di A Christmas Carol, la manovra capovolta dell’aereo (che diventa una piuma) in Flight, la conquista dell’aria (e delle Twin Towers redivive) in The Walk. Un movimento, o meglio, una dinamica di piani spaziali che sfruttano il tempo fuori sesto per ottenere un differente livello di verosimiglianza (senza mai specificare, questo è il bello, se la frattura temporale sia avvenuta prima dell’intervento del cineasta o invece lo profetizzi: due facce della stessa medaglia chiamata cinema o di quello che per Robert Zemeckis è o dovrebbe essere il cinema). Con in più – in quest’inizio dell’ultimo Zemeckis, Allied – l’intuizione di sottoporre il tutto a uno strano effetto à rebours che inverte una certa tendenza (zemeckisiana) a considerare il digitale come vera e propria ipotesi di nuovo umanesimo proprio perché basato sull’al di là dell’umano, sull’oltreumano dell’immagine stessa: stavolta l’atterraggio di Pitt e i suoi primi passi nel deserto – così apertamente grafici – sono anche il racconto di un progressivo ritorno, un rientro nel corpo dell’attore. Insomma, il primo ad arrivare nel deserto del Marocco francese durante la Seconda Guerra Mondiale è il disegnino al computer che tuttavia, camminando sulle dune, assume piano piano il volto e la cadenza di Brad Pitt.
Non sarebbe dunque la prima volta vedere Zemeckis aggirarsi intorno a quelli che sembrano nuclei e insieme fossili di onde fotoelettriche che vorticano in set vuoti in attesa, ma che forse in realtà riflettono (e progettano marchingegni mentali) su una misteriosa ipotesi di impersonalità, il film che non è più della macchina e non più dell’umano insieme. Si galleggia oltre la vita in un molle bel nulla, che trattiene tuttavia ri-tratti così solidi e dettagliati da sembrare veri. E se l’impressione è quella di una progressiva umanizzazione degli attori del paesaggio del film, è perché l’artificio attiene tanto al reale quanto al fittizio, è perché entrambi si generano dall’ansia di una più complessiva dissoluzione (qui in Allied anche storicamente determinata). Forse per Zemeckis l’immagine concepisce il proprio esserci come stato mutante fra visibilità e apparenza. Se allora, per un certo periodo non restava che simularla, disporla su margini alterati, fino a gestirla nel non-umano, o nel simil-umano, era perché la natura imprecisa e zoppicante della simulazione digitale costituiva una sorta di lapsus divaricato fra il desiderio di accorciare la distanza (il margine) con l’immagine stessa e la coscienza di non poterne toccare il fantasma se non mimandolo appena.
Ma evidentemente (in fondo i precedenti Flight e The Walk lo anticipano) qualcosa è cambiato. Allied precisa meglio il discorso a partire dall’inserimento di questi vincoli e svincoli teorici all’interno di un sistema di rapporti più drammaticamente e appunto umano. La Seconda Guerra Mondiale. Una storia d’amore fra spie. Anzi (non sottovalutabile) una storia d’amore fra una spia canadese e una spia nazista durante la Seconda Guerra Mondiale (che la scintilla amorosa scocchi a Casablanca e che alla fine sarà di nuovo protagonista un pianoforte, non credo abbia bisogno di ulteriori commenti). Melodramma dell’ambiguità che Zemeckis sviluppa nei termini hitchcockiani a lui cari (quelli del Sospetto e soprattutto dell’Ombra del dubbio ), anche qui invertendo la procedura: è l’uomo a sospettare e a dover fare i conti con la realtà che si trasforma in illusione (e in qualche modo, con tipico parossismo mélo, a combattere contro entrambe per difendere ciò che è sempre più reale del reale e più illusorio dell’illusione: l’amore).
Come fa, come ha fatto, la femme fatale nazista (una Marion Cotillard sinceramente sempre più brava) a fingere così bene? Perché non finge, non ha mai finto, come lei stessa dichiara da subito mentre istruisce Pitt sulle strade di Casablanca nel 1942. Lo ama e lo tradisce e lo tradirà e amerà fino alla fine. I film più belli sono così, ci si chiede come si possa credergli e la risposta è questa idea di finzione assoluta che comprende tutto l’arco di idee che va dalla verità alla menzogna. Esattamente come in Polar Express il tutto in digitale correva parallelo al processo di incredulità e fragilità connesso all’idea stessa del credere (a Babbo Natale, o all’uomo digitale che si vorrebbe costruito a immagine e somiglianza dell’uomo reale), e dunque del vedere. A Londra ci si sposa e si mettono al mondo bambini sotto i bombardamenti e l’urlo delle sirene (una Londra che ricorda molto quella autobiografica di un grande e dimenticato film di John Boorman, Hope and Glory, nella versione italiana Anni ’40)? Paradossi. Anche in un film così apertamente debitore dei classici Zemeckis sembra chiedersi quali sono i margini dell’immagine. La loro inesattezza e la loro progressiva alterabilità. L’uomo solo strappato a se stesso assapora l’energia dolce dei sentieri che si biforcano, per un attimo non ponendosi limiti, dimenticando confini e linee divisorie. Fuori dall’isola o dalla guerra, dove tutto è già uno smarginarsi e un immaginarsi, ora è veramente strappato via, cast away, immesso in un vortice in cui rifluiscono i ritorni al e dal futuro, l’inclinarsi e l’addensarsi della Storia, il realizzarsi invisibile del contatto. L’intuizione di Zemeckis sta nel tentativo di far slittare la memoria dell’antico effetto artigianale (una semplice love-story) – la sua produzione d’incredulità e distanza dal reale – nell’effetto speciale, cioè la menzogna che diventa verosimile assoluto, qualcosa per cui val bene morire e val bene una vita intera. Quello che si è appena fatto in tempo, quello che ci è sfuggito e quello che non si vorrebbe mai smettere di vedere.
Recensione di Lorenzo Esposito
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