Il saggio che ha insegnato a prendere sul serio il cattivo gusto: un inno al sublime fallimento della cultura pop.
Tommaso Labranca è stato uno dei primi intellettuali italiani a interrogarsi sul concetto di trash. In questo breve saggio apripista — saccheggiato da molti senza che se ne citi mai la fonte — egli lo sintetizza con una formula tanto semplice quanto efficace: “Intenzione – risultato ottenuto = trash.” Per Labranca è trash l’emulazione fallita di un modello alto: Bobby Solo che imita Elvis Presley. Ben diverso dal kitsch, che nasce da una sorta di sindrome dell’impostore e che, nel tentativo esasperato di abolire ciò che ritiene volgare, ottiene l’effetto contrario: Remo Girone che afferma di leggere «solo libri Adelphi». Il Camp, invece, è per Labranca il trash consapevole di se stesso, e dunque condannato a perdere la propria spontaneità: «Blob» è Camp. Andy Warhol era un coatto è un viaggio dentro questo universo umano, troppo umano, fatto di aspirazioni mancate e sublimi fallimenti, di tradimenti ed eccessi di fedeltà. Una ricerca del genio creativo che si nasconde dietro il trash, condotta attraverso acronimi, americanismi, equazioni, diagrammi di flusso e persino riferimenti a testi scolastici e manuali tecnici. A Labranca dobbiamo molto, come si deve a quegli intellettuali che ci insegnano la più difficile delle facoltà: quella di disimparare. Grazie a lui abbiamo disimparato platonismi e hegelismi, snobismi marcusiani e adorniani; abbiamo compreso che la cultura di massa non è tutta spazzatura, e che spesso i veri cialtroni si annidano proprio nella cosiddetta cultura “alta”, dietro i paroloni, dove è più difficile riconoscerli. Dimenticare, a volte, è l’unico modo per vedere le cose per ciò che sono: autentiche, senza filtri retorici, senza canoni imposti, senza i pregiudizi della critica di tendenza. Così scopriamo che l’estasi può celarsi dietro l’oggetto più anodino, nella canzonetta insospettabile, nel pecoreccio di qualche film di serie Z. Dopo la pubblicazione di Labrancoteque — un’egozine in quattordici puntate interamente autoprodotta in PDF e diffusa quasi clandestinamente — abbiamo deciso, per rendergli omaggio, di trafugare dal dimenticatoio del web anche questo saggio: tra i suoi scritti più celebri e riusciti. Un gesto di riconoscenza, nella speranza che gli venga riconosciuta quella dignità intellettuale che merita — e che probabilmente lui stesso non avrebbe voluto, o forse non avrebbe mai ammesso di desiderare. Andy Warhol era un coatto è un viaggio dentro questo universo umano, troppo umano, fatto di aspirazioni mancate e sublimi fallimenti, di tradimenti ed eccessi di fedeltà. Un’esplorazione alla ricerca del genio creativo che si nasconde dietro il trash, condotta attraverso acronimi, americanismi, equazioni, diagrammi di flusso, e persino rimandi a testi scolastici e manuali tecnici. A Labranca dobbiamo molto: come a quegli intellettuali che ci insegnano la facoltà più difficile di tutte, quella di disimparare. Grazie a lui abbiamo disimparato platonismi e hegelismi, snobismi marcusiani e adorniani; abbiamo compreso che la cultura di massa non è tutta spazzatura, e che spesso i ciarlatani si annidano proprio nella cosiddetta cultura “alta”, dietro i paroloni, dove è più difficile riconoscerli. Dimenticare, a volte, è l’unico modo per vedere le cose per ciò che sono: genuinamente, senza filtri retorici, senza canoni imposti, senza i pregiudizi della critica di tendenza. È così che scopriamo come l’estasi possa celarsi dietro l’oggetto più anodino, nella canzonetta insospettabile, nel pecoreccio di un film di serie Z. Dopo la pubblicazione di Labrancoteque — un’egozine in quattordici puntate, autoprodotta in PDF e diffusa quasi clandestinamente — abbiamo deciso di trafugare dal dimenticatoio del web anche questo saggio: uno dei suoi scritti più celebri e riusciti. Un omaggio necessario, nella speranza che gli venga riconosciuta quella dignità intellettuale che merita — e che, probabilmente, lui stesso non avrebbe voluto, o non avrebbe mai ammesso di volere.