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Si tratta di una curiosa antologia che mette insieme un paio di libri degli anni Settanta ormai introvabili - "Il chiodo in testa" e "La bottega dei mimi" - e altri testi sul teatro. Il grosso volume, ben 450 pagine, è in gran parte illustrato dalle immagini di Carlo Gajani.
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Per molti tra coloro che, come chi scrive, non li hanno vissuti, gli anni Settanta italiani hanno il sapore forte di un’epoca contraddittoria, lontana e fascinosa, perduta nelle nebbie di possibilità e promesse mai avveratesi. Ogni volta che capita di tuffare le mani, gli occhi o le orecchie in qualcosa prodotto in quel decennio, lo stesso gusto dolceamaro torna ad affacciarsi. Ed è così anche nel caso delle due opere di Gianni Celati che Nunzia Palmieri meritoriamente ha appena recuperato per L’orma editore, Il chiodo in testa e La bottega dei mimi, due lavori fino a oggi difficili da reperire e noti solo per frammenti pubblicati in sedi sparse.
Vi ritroviamo intatta tutta la carica pacatamente, ma inesorabilmente, eversiva del primo Celati, fiero avversatore di quell’idea monolitica, monumentale e prescrittiva di realtà consegnataci dai ringhianti secoli-cerbero Otto e Novecento. Un’idea edificata a partire da alcuni incrollabili dogmi su come dovrebbe funzionare, e reggersi, ogni impalcatura sociale (dogma della rispettabilità), ogni assetto retorico-politico (dogma dell’assertività), ogni sistema ideologico-conoscitivo (dogma della dottrinarietà): insomma quanto avvalora e potenzia il paradigma moderno della serietà. È proprio l’idea di normalità come condizione mentale dell’uomo adulto educato che Celati mina alle fondamenta, scegliendo di assecondare quella che in Conversazioni del vento volatore (Quodlibet 2011) definisce «l’antica e fanciullesca vocazione del pagliaccio», ovvero imboccando senza esitazione la strada bachtiniana del mondo alla rovescia. Ecco perché uno tra i più genialmente irregolari maestri della letteratura italiana scelse, tra quaranta e cinquant’anni fa, di puntare tutte le sue carte sulla favola, sul teatro, sul mimo, sul travestimento, sullo sberleffo, sul gioco, elevando lo spaesato, il disambientato, l’inetto a figure esemplari di oppositori: per immaginare una rivoluzione che non si radicasse nel qui e ora (lì e allora) dei linguaggi letterari, giornalistici, partitici, ma che viaggiasse attraverso i secoli, saldando lo smisurato riso giullaresco alle bulimie di Rabelais, il Settecento sovradimensionato/sottodimensionato di Swift ai set sovraffollati dei fratelli Marx.
A dominare queste Animazioni e incantamenti sono la dimensione artigiana dello spettacolo – attività necessariamente collettiva e non solipsistica – e l’idea che l’ignoranza, l’inconsapevolezza, l’incoscienza e la marginalità debbano sempre guadagnarsi il centro della scena. Il chiodo in testa è un’opera paradigmatica di tutti questi aspetti, un lavoro di grande interesse per gli studiosi celatiani ma raccomandabile anche come ottimo viatico all’opera dello scrittore. Risalente al 1974, il libro presenta evidenti consonanze con la stagione di Comiche e Le avventure di Guizzardi, di cui in un certo senso costituisce la naturale evoluzione in direzione transmediale. Lo compongono una serie di missive che l’anonimo Z. invia a tale Giovannina, amato fantasma sessual-amoroso che forse esiste solo nella sua mente; le lettere sono intervallate da immagini – una serie di fotografie scattate da Carlo Gajani – che corrispondono alle visioni di Z. Di conseguenza, mentre la pagina scritta registra pensieri e (s)ragionamenti di Z., alle tavole fotografiche spetta il compito di dar corpo al suo allucinato teatro mentale, che è un impasto di languido erotismo e paranoia galoppante, il tutto infarcito di fantasie persecutorie rivolte contro un dio-fotografo voyeur e torturatore. Tra Pinocchio, che qui ci pare il sottotesto più forte (il chiodo del titolo è stretto parente del Grillo Parlante, come lui tutore dell’ordine costituito), Beckett e la slapstick comedy, con l’invenzione di Z. Celati porta alle estreme conseguenze il personaggio dell’innocente-alienato, instancabile nel ricordare ossessivamente la propria condizione di «anima buona» («io che sono tanto buono e non ci penserei mai alla cattiva azione»), ma che infine viene condannato a una condizione di reclusione e isolamento, forse manicomiale, al quale paiono alludere non solo il testo d’autore ma le ultime cinque fotografie di Gajani, le quali ritraggono alcune finestre sbarrate (mancavano allora tre anni al ‘77 e ad Alice disambientata, quattro alla legge Basaglia).
L’altro lavoro recuperato, La bottega dei mimi (1978), realizzato in coppia con l’amico Pascal Gabellone e in qualche caso con l’intervento dell’attrice Nicole Fiéloux, è un divertente resoconto di azioni sceniche fissate su pellicola dall’occhio complice di Gajani. Producendosi in un «singolare repertorio di favole minime» (Palmieri), la coppia comica Celati-Gabellone gioca col tema della rappresentazione, dimostrandone la natura fasulla, convenzionale; le loro apparizioni in veste di maghi, marinai od operai non hanno alcun intento o valore dimostrativo, gli oggetti che accumulano sono cianfrusaglie insufficienti a fare davvero un’identità: è un mondo umile fatto di figurine bidimensionali, buone solo per raccontare «le favole di disgraziati che piacciono tanto agli arrivati». Qui il faro è rappresentato da Harpo Marx, «mimo energumeno» come lo definisce Celati, maestro di un perennemente carnascialesco votarsi alla dissacrazione, allo sberleffo, alla trivialità gratuita come pratica liberatoria, gesto salutare (anche se a volte la morale c’è; cito ad esempio questa didascalia che riscrive il tradizionale adagio dei moralisti medievali, pecunia stercus diaboli: «la favola della pentola del tesoro che faceva odore di merda e il rumore dell’oro»).
Nella seconda parte, il volume confezionato da Nunzia Palmieri presenta una serie di testi saggistici d’autore mai raccolti prima, alcuni dei quali di grande rilievo; si segnalano in particolare il contributo sulla tradizione ideologica del riso e la storia dei generi letterari come storia dei conflitti di classe (Trobadori, giullari, chierici) e quello sull’utopia comica del corpo collettivo ( Il corpo comico nello spazio) che per molti aspetti possono essere letti come i due nuclei teorici forti dell’intero volume. Notevoli anche alcuni testi sulla fotografia di Luigi Ghirri e quelli sul teatro del sodale e amico Giuliano Scabia, ma a sorprendere sono soprattutto le pagine di Oggetti soffici, un denso saggio dedicato alla condizione del «soggetto d’esperienza contemporaneo», colui per il quale il mondo si divide in un’interminabile serie di «mi piace/non mi piace». Era il 1979 e Celati già aveva capito dove andava a parare l’era della post-verità: «l’inganno è star ancora a distinguere il vero dal falso».
Riccardo Donati
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