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In sé ha qualcosa di molto brutto a partire dal nome del protagonista: Cane. L'ambientazione? In una sorta di manicomio. C'è persino una Lei che compare di tanto in tanto nella testa di Cane. In sé, il libro incuriosisce perché non si sa dove stia andando, dove ti stia portando, ecco dove: al dialogo finale tra Cane e Corsini, e anche Corsini è brutto, è vecchio e lurido. Un romanzo che ha qualcosa dei film girati negli anni Settanta da Cronenberg.
Recensioni
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recensioni di Perrella, S. L'Indice del 2000, n. 11
In tempi d'inutile alluvione romanzesca come i nostri, L'appeso, la nuova invenzione narrativa di Claudio Piersanti, c'impone di ricordare cosa sia davvero la letteratura quando è pienamente se stessa.
Quanti romanzi leggiamo, pensando che sarebbe stato meglio andare al cinema, e quante volte, pur riconoscendo l'abilità tecnica dello scrittore, la storia ci scorre addosso senza lasciare alcuna traccia duratura?
Leggere L'appeso significa invece compiere una vera esperienza d'immaginazione interiore. Da dove vengono infatti le figure che abitano questo libro, e che sono capaci d'insinuarsi nella nostra mente, se non dall'immaginazione di chi ha avuto la pazienza di aspettare che le immagini si trasformassero in un fitto susseguirsi di righe uniformi, e in questo stillicidio alfabetico ha saputo abbandonarsi agli umori più foschi e alla più disarmante tenerezza?
Si chiama Antonio Cane la figura principale di questo libro, e ha quarantaquattro anni. È lui "l'appeso", simile al tarocco che dà il titolo al libro: "L'appeso era un tizio legato per la caviglia al ramo di un albero e anche se era a testa in giù non sembrava seccato, anzi ne approfittava per pensare ai fatti suoi". Piersanti ce lo presenta con le valigie in mano, mentre arriva in una nuova città. Ha un lavoro da espletare, e questo lavoro lo conduce dentro un palazzo in apparenza simile a molti altri, in realtà piuttosto diverso, sia nella sua forma interna, sia nei suoi abitatori. È in parte un ospedale, in parte un ospizio, in parte un nascondiglio, in parte un albergo e tante altre cose.
Il lavoro di Cane è, appunto, quello di mordere. In questo palazzo si è nascosto un uomo che conosce ed è in procinto di rivelare notizie pericolose. È un politico, un uomo dei servizi segreti, un funzionario dello Stato? Non importa sapere esattamente chi sia Corsini (è questo il suo cognome); importa semmai osservare il suo ormai naturalizzato rapporto con la menzogna, e sapere che il compito di Cane (affidatogli da Angelo) consiste nel sopprimerlo.
Nel suo lavoro, Cane è un uomo di vasta esperienza. Già in passato, per raggiungere i suoi scopi, ha saputo abitare luoghi difficili e squallidi come ad esempio un carcere, e ne ha tratto la convinzione che "La gente si lascia impressionare dalle apparenze, non sa che tutto diventa normale e che di qualsiasi luogo si può avere nostalgia". Basta sapersi avvicinare alle cose e "non c'è più niente che faccia paura, sono i cretini che rovinano tutto, i cretini e i fanatici, altrimenti può esserci dell'allegria dovunque, anche dove ti sembra che dominino male e squallore, mentre il vero squallore lo trovi dove ti aspettavi la più serena normalità, quasi sempre".
Per Cane "le piccole ferite a volte sono più dolorose delle grandi". La sua piccola-grande ferita sta nel fatto che la donna che ama è già sposata con un altro. Ciò non significa che il suo sentimento non navighi incessantemente dentro di lui, giganteggiando nella sua mente. Quante volte ha bisogno di parlare con lei anche se non è lì con lui, e quando raramente le telefona non sa dirle se non pochissime strozzate parole. E quando riesce a scriverle una lunga lettera, sente la necessità di distruggerla, triturandola e disperdendola in molteplici cassonetti dell'immondizia (e sono davvero pagine di grande presa). Ma esiste davvero questa donna, o è solo nella mente di chi l'ama così intensamente?
È un altro interrogativo destinato a rimanere tale, perché anche in questo caso non è davvero necessario saperne di più, in un libro che ritaglia con una radicalità sapiente che fa impressione solo ciò che gli serve, essendo fedele in tutto e per tutto a questo monito: "Frena la parola che si inceppa da sé, non lasciarla uscire".
Anche se nominata, non sapremo mai come si chiama questa donna, così non vedremo nessuno dei dettagli figurativi di contorno alla storia: chi serve i pasti, ad esempio? Eppure c'è una mensa, e Cane, come gli altri abitanti della casa, ne usufruiscono. Ciò non significa che oltre alle figure di Cane e di Corsini non facciano la loro apparizione, e non abbiano i loro ruoli, altri personaggi, tra i quali indimenticabile mi sembra Andrea, un povero e indifeso ragazzo che abita "la stanza più vuota che avesse mai visto: un lettino in struttura metallica proveniente dalle cantine dell'ospedale, una sedia, una grande valigia chiusa, una lampadina nuda appesa al suo lungo filo giallastro". E come non citare la visione rapida e folgorante, strappata all'inconsapevole Sandra: "Si avvicinò e aprì la porta piano piano, due o tre millimetri appena. Sandra era immersa nell'acqua ma il suo viso era irriconoscibile, gonfio e deformato da una smorfia di disgusto".
Se Piersanti frena la parola che possa squadernare la sua storia è perché vuole intensificare le immagini mentali che nascono dal susseguirsi delle righe. E si tratta, certo, di immagini mentali, ma di quanta precisa e quasi palpabile consistenza, tanto che a volte si pensa ai procedimenti immaginativi di Kafka, e al modo in cui sono stati trasportati nella nostra lingua in un libro come Il padrone di Goffredo Parise. E altre a vere e proprie deiezioni psichiche.
Dopo aver corteggiato la quotidianità cechoviana con Luisa e il silenzio (nei "Classici" Feltrinelli è possibile leggere una sua bella introduzione ai racconti dello scrittore russo), Piersanti dunque si presenta ai lettori con altre e diverse tonalità, che forse erano in parte affiorate nella collaborazione con Lorenzo Mattotti confluita in Stigmate (cfr. "L'Indice", 2000, n. 6), ma sempre fedelissimo a se stesso.
Cane, lui che non crede nel libero arbitrio, ma solo nel destino o nel caso, "trovava da sempre affascinante l'ordine naturale delle cose". Ed è nell'ordine naturale delle cose che "da qualche parte l'odio rispunta fuori, è l'odio il padrone del mondo. È inutile cercare di interpretarlo e descrivere da dove viene: l'odio è in sé una spiegazione sufficiente. C'è l'odio, c'è il sole, c'è la tempesta, c'è la penicillina, c'è il cancro. C'è tutto". Abbandonandosi a questa terribile naturalezza, Piersanti ha scritto una storia immersa in un'acqua limpida ma velenosa, che, come il liquido di una flebo assassina che Cane riesce a neutralizzare, manda "un riflesso azzurrino che brillava un istante nella penombra prima di svanire nel buio".
D'altronde, "il mondo è lento e sornione, si disse Cane, pieno di tempi morti, rami secchi, passeggiate serene, pensieri caldi d'amore non troppo invadenti".
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