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La struttura di questi "bozzetti" la si coglie fin dal primo, fulminante testo Piedi. È l'ascolto la molla che muove la narrazione della raccolta convergendo in una riflessione finale sospesa, per così dire affidata al lettore. Uno zio rievoca la guerra hitleriana, le ferite e nel 1944 il ricovero a Ferrara. Dell'Italia gli resta un unico, ossessivo ricordo: i piedi nudi dei cadaveri allineati nell'ospedale militare. Alla voce di un remoto passato tedesco segue lo scarto nel presente, corre l'anno 2007 e chi parla in prima persona è ora il nipote, come Schulze un giovane autore, flâneur nella basilica romana di San Clemente. La scrittura si fa diaristica e la macabra memoria familiare si rovescia in un impulso vitale che immerge l'io nel tepore di una dimensione sovrastorica. Il corpo del narratore si abbandona, diventa strumento tattile di oblio e conoscenza: lo sguardo corre sulla policromia del marmo cosmatesco, "levigato per secoli da migliaia di passi", e il giovane turista sente "il desiderio di camminare a piedi nudi sul pavimento per aderirvi quasi fosse caldo". Lo scrittore è stato ospite di Villa Massimo nel 2007 con la famiglia. Non è un caso che questo racconto, brevissimo, apra una raccolta di trasparente derivazione autobiografica. Schulze, classe 1962, si presenta qui come un autore consapevole del massacro nazista alla ricerca di una via d'esperienza che risani le ferite del passato tedesco. E questo tendersi tra i due poli temporali, la tragedia recente e un mondo antico inteso come sorgente universale, pare a me un segno distintivo si pensi a Durs Grünbein di diversi scrittori tedesco-orientali. Ma Schulze, a differenza del poeta e compagno di liceo, non veste i panni del filologo esperto di antichità classica, piuttosto s'inabissa coi racconti successivi nel "denso" mondo mediterraneo, ne aspira gli odori perlustrando i cortili napoletani, dove "ti squadrano, ti sfiorano, ti spintonano e mai c'è silenzio". E dove gli abitanti "non hanno più né la forza, né il tempo per illudersi" (Aranci e angeli). Rispetto a molta letteratura di viaggio la tecnica dell'ascolto confina il narratore ai margini del racconto, assegnandogli una sorta di cauto sottovoce. L'alter ego di Schulze non giudica, piuttosto registra con precisione antropologica gesti e voci altrui. È uno stile che conosciamo dal suo splendido testo d'esordio, 33 attimi di felicità, il romanzo del 1995 ora in ristampa da Feltrinelli: attraverso storie ed eventi narrati da altri personaggi, la scrittura trascende il dato realistico per approdare nel visionario. Nei racconti italiani il passaggio si verifica con l'introduzione di figure che popolano il nostro recente universo, quelle degli extracomunitari. A questi "invisibili" Schulze dà nome, voce e volto. In un certo senso la raccolta di schizzi, ritratti e bozzetti si costituisce come una sorta di arca di Noè che salva la memoria di un destino di spaesamento dal diluvio dell'ostilità preconcetta e dell'indifferenza mediatica. Prendiamo ad esempio Augusto, il giudice, certamente il testo più significativo. Fin dall'incipit si annuncia al lettore un tratto lacunoso "Non racconteròtutto, così come Augusto non mi ha raccontato tutto" ; la storia è tuttavia puntualmente datata al 10 agosto 2007. Le prime immagini hanno il carattere di un'analisi sociologica, sono extracomunitari quelli che stazionano davanti a un supermercato romano, individuati nella loro provenienza, l'Albania e lo Sri Lanka, il Maghreb e l'Egitto. Malgrado il vuoto della calura estiva si respira una latente xenofobia, ce lo dice l'africano arrotato da un automobilista in uscita dal parcheggio. All'interno, invece, Schulze coglie la gestualità di una gioia di vivere tutta meridionale. Anche se il supermercato appartiene ormai alla categoria dei non-lieux, luoghi anonimi e privi d'identità, qui invece c'è un cassiere che "mitraglia la collega a suon di broccoli e quasi scoppia dal ridere perché lei non capisce da dove arrivi quella verdura". E così via con piccoli episodi di sapore locale finché arriva Augusto, un indiano sedicente scrittore che vive a Roma come fattorino. È la sua storia, raccontata in itinere, in mano i sacchetti della spesa del narratore lungo una strada assolata, ad assumere tratti fantastici. C'è di mezzo una donna bellissima che pare uscita da un film di Antonioni e un invito in un sontuoso palazzo dei Parioli. Qui, in un'atmosfera da Mille e una notte, Augusto ha vissuto l'abiezione notturna di un trio femminile che nell'allusione cromatica delle vesti rimanda al tricolore nazionale. Schulze profila un mondo segreto che, in un sadico gioco di ribaltamento dei ruoli, si compiace di manipolare nell'anima e nel corpo una truppa di diseredati "in cerca di un visto, di denaro e lavoro". Rosarno è vicina e nella voce di Augusto l'Italia assume i tratti di una res publica sull'orlo del tracollo morale. Accortamente l'autore mette in dubbio la testimonianza di Augusto. Ma quello che resta nel lettore è il sapore autentico e amaro dell'ultimo (pasoliniano) fotogramma che Schulze gli dedica: parcheggiatore abusivo di Pietralata, abbagliato dai fari, la pila in bocca, Augusto gesticola nella notte per far posto alle auto in arrivo. Un accattone muto, come tanti immigrati dei giorni nostri. Anna Chiarloni
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