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recensione di Puccini, D., L'Indice 1994, n. 7
Quando gli spagnoli arrivarono, con Cristoforo Colombo, in America, esistevano là popolazioni a diversi gradi di evoluzione: vi erano popoli di complessa civiltà, come gli Aztechi, i Maya, gli Incas, ma vi erano popoli ancora allo stadio primitivo di nomadi, cercatori, cacciatori, agricoltori, ecc. Quelli che incontrò Colombo erano di quest'ultimo tipo: vestivano con il solo perizoma oppure senza ed erano allo stato selvatico. Accadde in America una cosa simile a quella che sarebbe potuta accadere a un greco o, diciamo, a un europeo, che, ignorando l'Africa, fosse sbarcato là all'epoca della grande civiltà egizia; o fosse sbarcato in altra zona dove la gente fosse stata, come del resto era anche in antico, allo stadio ancora primitivo.
In genere, contrariamente a quello che abbiamo veduto nel cinema degli Stati Uniti, per il quale gli indiani o pellirossa sono stati a lungo considerati indocili e malvagi, e più recentemente, invece, veduti con simpatia via via fino alla visione, diciamo umanizzante, di "Balla coi lupi", di Kevin Costner, nell'America Latina letteratura e cinema sono stati, se non erro, sempre indulgenti e favorevoli agli indios, tanto che ne è nata una corrente letteraria denominata "indianista". E negli ultimi tempi la tendenza è addirittura quella di riconoscere una dignità alla letteratura india scritta nelle lingue superstiti e con possibilità di trascrizione grafica, e quindi di concederle autonomia e pieno riconoscimento.
Anche per questo, è insolito imbattersi in un libro latinoamericano, anche se a carattere di fiction, insomma un romanzo, che veda gli indios non solo nella luce cruda del loro primitivismo (com'erano, ad esempio, quelli, scarsi e nomadi e feroci, che vivevano in origine in Argentina e che furono tutti massacrati), ma persino nella loro veste di antropofagi...
Juan José Saer è scrittore maturo (è nato a Santa Fé nel 1937) ed è autore di numerosi romanzi e libri di racconti nonché di qualche libro di saggistica (insegna in Francia letteratura ispanoamericana); i suoi libri sono molto diversi l'uno dall'altro (in alcuni vi predominano la riflessione e l'analisi psicologica) e letterariamente molto diseguali. Questo, "El entenado", è molto bello e risale ai primi anni ottanta. Il suo titolo originale significa "Il figliastro" o qualcosa di simile, insomma, allude a una persona adottata e assimilata a un mondo altro, e si poteva tradurre con efficacia "L'intruso", ma pare che la parola richiamasse qualche titolo d'altro libro. In effetti, di "arcano" qui vi è soltanto l'anormalità e l'eccentricità della situazione.
Qui, a somiglianza di un libro di César Aira, "Ema, la prigioniera", tradotto tre anni fa da Bollati Boringhieri - anch'esso di un autore argentino, ma più giovane - l'entrata o penetrazione nel mondo indio si ripete secondo le modalità della letteratura ottocentesca (altra, peraltro, non ne esiste sull'argomento), cioè attraverso "l'incidente" che capita a un bianco di finire in mezzo a una popolazione estranea, della quale finisce per assorbire usi e costumi. Gli indios di Saer svolgono, a differenza di quelli di Aira, soltanto riti violenti e persino orrendi, raccapriccianti, e il linguaggio del romanzo, travolgente e coinvolgente come quello d'un racconto d'avventura, è quello della ferocia, del sesso sfrenato e del terrore. Poche volte una narrazione ha superato certi limiti di raccontabilità e di negazione: specialmente nella scena di una cerimonia di antropofagia, scritta con le parole spoglie, scabrose e scarne del semplice resoconto. E ciò che più stupisce del romanzo, quasi una vetta di orrore e di nefandezza, è che questo tuttavia non comporti giudizi e condanne. Si sa che il cannibalismo era negli usi di popoli anche meno rozzi di quelli descritti da Saer: ma è la sua penna che non trema di fronte all'evento.
Il "prigioniero" o meglio lo strano ospite di un ambiente non suo si adatta a poco a poco a tutto quello che vede e che sente intorno a se, e che naturalmente ha una sua logica e una sua normativa, alla quale non gli è difficile conformarsi, sino a subire una sorta di impercettibile trasformazione di se stesso e del proprio passato. Anzi, il suo passato diventa quello, quello della sua vita di "intruso" che non si sente più tale. Fino al giorno in cui gli indios lo caricano su una canoa e lo abbandonano a una libertà che è quasi un messaggio di loro scelta, e di loro convinzione. E la vita dell'ospite non voluto, ma a lungo sopportato, sarà segnata da quegli anni di profonda "diversità". Egli ha superato una "frontiera" e porterà la frontiera nel proprio sangue. Non a caso, nell'intervista che chiude, il volume, Saer asserisce che per lui "la letteratura è una sorta di antropologia speculativa", una ricerca affannosa della "singolarità dell'uomo e del mondo", ma nella sua "nudità" sostanziale.
Questa volta, nel chiudere la mia recensione mi sento in pace con tutti: e devo dirlo. Finalmente posso parlare di una traduzione armonica e precisa, senza alcuna sopraffazione al testo, anzi con un'aderenza sensibile ai suoi valori. E le case editrici lo sappiano: visto che la lingua spagnola, il castigliano, è una lingua difficile come le altre, e merita, anche per gli scrittori contemporanei, un'attenzione adeguata, il giusto travaso da una cultura ad un'altra. E dico appunto "finalmente": proprio dopo gli scempi che sono stati compiuti poco tempo fa con le poesie di Alvaro Mutis (Einaudi) e ora con i racconti di uno scrittore di grande rilievo come Roberto Arlt, pubblicati con il titolo "Il giocattolo rabbioso" da un piccolo e volonteroso, ma ahimè, assai disattento editore: Le Mani di Genova.
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