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Il rettorato 1933/3.
A cura di Carlo Angelino
Nel 1988 si ebbe la pubblicazione del libro di Victor Farias Heidegger e il nazismo (Bollati Boringhieri), un libro che, se mirava a denunciare le compromissioni di Heidegger con il nazionalsocialismo, pretendeva altresì di dimostrare che il pensiero di Heidegger, nella sua interezza, e nella sua epifania filosofica nel bel mezzo del Novecento, non poteva che rivelarsi coessenziale con il regime hitleriano. Nel corso di un acceso dibattito che durò parecchi mesi, e che precipitò sui grandi quotidiani, il mondo della filosofia italiana conobbe acque agitate, prese di posizione contrastanti, persino qualche malcelato imbarazzo. Intervenne anche "L'Indice" (1988, n. 1). E fu una recensione, ad opera di Diego Marconi, che mise in luce, più che giustamente, la rozzezza di uno studio che si trovava evidentemente a mal partito nel far perfettamente combaciare inoppugnabili riscontri filologico-biografici e ardui passaggi di pensiero. Riproblematizzò tuttavia il nazismo sul terreno culturale. Se infatti una grande personalità, del peso di Heidegger, era stata, e non superficialmente, nazista, ciò rendeva il nazismo stesso certo non meno demoniaco, ma ancora più inquietante, vale a dire più invasivo e pervasivo, più radicato, "meno facilmente identificabile con il regime sanguinario di una banda di briganti". La novità, insomma, riguardava, ancor più che la filosofia (che si fondava su uno statuto dotato di una relativa autonomia), ancor più che le scelte profonde o anche solo opportunistiche dell'uomo Heidegger, proprio la storiografia, e in particolare il giudizio sulla multiforme identità culturale del nazismo. Farias rispose all'"Indice" (1988, n. 6) con un lungo intervento, in cui ripropose il proprio approccio ingenuo, e anche un po' confuso, alla questione, e insieme la fondatezza delle proprie indagini in merito non solo a questa o quella affermazione di Heidegger, ma anche in merito ad attacchi nei confronti di colleghi non nazisti, e non ariani, oltre che a delazioni moralmente (ancor più che politicamente) spregevoli.
Fu così che, molto opportunamente, nello stesso 1988, Claudio Angelino pubblicò, una prima volta (la seconda è la presente), sulla base dell'edizione tedesca del cinquantenario (1983), il discorso di rettorato del 1933, vale a dire il discorso compiuto da Heidegger allorché, dopo che Hitler e il nazionalsocialismo erano giunti al potere, gli venne offerto il rettorato, il che, come scrive Angelino nel denso poscritto all'edizione del 2001, "rappresentò per Heidegger l'occasione per partecipare attivamente alla rivoluzione in atto nel suo paese e svolgere in Germania il ruolo che Giovanni Gentile aveva svolto nel decennio precedente in Italia". E qui non si può non segnalare la perplessità che suscita il paragone con Gentile, subito infatti ministro della pubblica istruzione in una fase "paraliberale" che il nazismo-regime non ebbe mai, e poi organizzatore attivissimo di cultura. La pubblicazione del Rektoratsrede, comunque, rese e rende noto in Italia un documento di forte significato filosofico, insediato in più punti dentro quel famoso gergo dell'autenticità che Adorno provò a decostruire ed evidentemente ossessionato dal problema dellÆinizio (di qui un costante riferimento ai primordi della filosofia greca), oltre che dai problemi della potenza, della volontà, del destino tedesco, quasi che il nuovo inizio che le camicie brune facevano baluginare sapesse e potesse paradossalmente servirsi della potenza proprio per contrastare il declino e il nichilismo che la potenza stessa aveva generato. Karl Löwith scrisse, così, che chi l'aveva ascoltato era rimasto nel dubbio se prendere in mano la silloge dei presocratici curata da Diels o marciare con le SA. Delude invece, e molto, la memoria del 1945, Il rettorato 1933/34, giustificazionistica e animata dal desiderio di rimozione storica che è stato comune a tanti tedeschi. Se in ogni caso grandioso, dunque, è stato lo Heidegger "nazista" del 1933, veramente piccino sembra lo Heidegger autoassolutorio del 1945.
Il fatto è che, soprattutto in Italia, ma anche in Francia, Heidegger era stato sino al 1988 prevalentemente un vertiginoso monolito del pensiero, messo in rapporto, nelle storie della filosofia, quasi esclusivamente con altre espressioni del pensiero stesso: con Husserl per le origini, e poi con i vari esistenzialismi positivi e no, con i personalismi, con la psicoanalisi, con la teologia, con la linguistica, con il sottosuolo "antiumanistico" dello strutturalismo filosofico, persino con certo marxismo assai in voga, soprattutto in Francia, negli anni sessanta. Chi del resto l'aveva criticato, in posizione per lo più di retroguardia, tanto da sembrare antimoderno, non aveva fatto ricorso a ciò che Heidegger definirà poi "inessenziale", vale a dire a singoli e pur sciagurati frammenti di vita vissuta, ma alla categoria dell'irrazionalismo, questa sì, in quanto tale, ritenuta, dallo storicismo materialistico non sedotto dall'heideggerismo, sospetta e "filosoficamente" contigua alla temperie fascista. Il libro di Farias strappò così Heidegger all'assolutismo teoretico e lo restituì, in modo certo lutulento, alla storia. La cosa curiosa è che quasi sempre furono i filosofi "di sinistra", se ci si può esprimere in modo così plateale, a difendere Heidegger e a minimizzarne i compromessi con il nazismo. Quelli "di destra" si compiacquero delle rivelazioni perché si poteva finalmente dire, dopo la lunga appropriazione indebita, che Heidegger era stato "dei loro". Heidegger e il nazismo uscì però dalle discussioni correnti. La storicizzazione del pensiero di Heidegger no. Tale pensiero, così, venne, certo parzialmente, risucchiato, almeno per quel che riguarda la sua corposa fase iniziale, da quel processo politico-culturale che fu, nella Germania di Weimar, la konservative Revolution. Per comprenderlo, come dimostra lo stesso Angelino (del quale si veda ora L'errore filosofico di Martin Heidegger, pp. 56, euro 7,75, il melangolo, Genova 2001), occorre fare ricorso anche a Schmitt e soprattutto a Jünger, l'opera e il soggetto teorico principali del quale (Der Arbeiter, 1932), Angelino, che ci fa anche un rapido excursus sul successivo e certo difficile da decifrare distacco (davvero "antitotalitario"?) di Heidegger dal nazismo, presenta sempre in una traduzione particolare, diversa rispetto al classico L'operaio chiosato da Julius Evola: ossia "milite del lavoro". Traduzione certo fascinosa, ma molto interpretante e, direi, più "fascista" che rivoluzionario-conservatrice. Fu proposta da Delio Cantimori quando invitò Giulio Einaudi, senza successo, a tradurre il libro di Jünger.
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