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Anno edizione: 2018
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"Il giornalismo è l'arte di arrivare troppo tardi il più in fretta possibile. Io non lo imparerò mai." Così scriveva Stig Dagerman: in questo volume, che raccoglie i reportage dalla Germania, scritti nel 1946, egli riesce ad andare oltre i limiti del giornalismo. Ci offre un'opera di letteratura in presa diretta, nella quale percorre la via della solidarietà e della comprensione umana, sfuggendo alle comode formule (scorciatoie) della "colpa collettiva" e della "obbedienza dovuta".
Autore scoperto grazie al bellissimo Tuttolibri de La Stampa, Dagerman mi ha conquistato profondamente sin dalla prima pagina. Incredibile la maturità dell'autore (scrisse questo reportage a 23 anni!), meravigliosa la sua capacità di andare a fondo, senza pregiudizi e superficialità. Lo consiglio vivamente!
La sofferenza guida lo sguardo dell'Autore e le parole che riempiono questo straordinario reportage arrivano a noi insieme al loro alto valore morale. Una riflessione, quella di Dagerman, che va oltre il resoconto giornalistico per approdare piuttosto a un bisogno di interrogazione che riguarda tutti, ieri come oggi. Ottima edizione Iperborea, adeguatamente completata dalla biografia dell'Autore e dal commento di Giorgio Fontana.
Recensioni
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Dagerman, giornalismo letterario dalla parte dei deboli
Tra l’ottobre e il dicembre del 1946, un giovanissimo Dagerman viene incaricato da un quotidiano svedese di trasformare il viaggio nella Germania del dopoguerra in un reportage che parli al mondo della vita tra le macerie. Ne deriva quella che, ancora oggi, è considerata una lezione magistrale di giornalismo letterario. Originariamente pubblicato in Italia da Edizioni Lindau, torna in libreria Autunno tedesco di Stig Dagerman per Iperborea, che mantiene la traduzione di Massimo Ciaravolo, ma a cui si aggiunge una prefazione di Giorgio Fontana.
Solo dalla penna di un uomo anarchico, ben disposto all’ascolto dei più umili, puro e immune da compromessi ma anche dal pietismo, sarebbe potuta nascere una prosa così limpida e pulita, onesta e diretta. Solo il giovane «Camus svedese», sarebbe potuto andare controcorrente, contro la volontà di punire un popolo che con le proprie azioni aveva determinato una delle più grandi catastrofi della storia del mondo.
In questi articoli si ripete spesso che è un triste autunno: è una stagione cruciale nella storia della Germania e questo si vede non solo nel tempo, ma soprattutto nell’anima e nel corpo. I giudizi dei cronisti dell’epoca si rivelano molto superficiali, specchio di un sentimento di vendetta ampiamente condiviso nel mondo occidentale. La realtà con cui entra in contatto Dagerman è quella dei giovani che devono scontare le colpe dei propri padri, che rimproverano i genitori o che, al contrario, sono cresciuti nell’ideologia nazista e che non concepiscono l’idea di democrazia; in ogni caso, si tratta di generazioni tradite e totalmente alla deriva. L’autunno che si percepisce scendendo tra le persone più umili riguarda un corpo ormai tanto vecchio e sporco da non poter nemmeno essere venduto all’esercito di liberazione in cambio di qualche pezzo di cioccolato o sigaretta; riguarda anche il precoce tramonto dell’infanzia, che si consuma all’esterno solo per procacciare qualcosa di commestibile invece che per giocare. Quale risposta ci si può aspettare da persone costrette a un’esistenza disumana, private di qualunque dignità? Ci si può sorprendere che affermino di preferire le condizioni di vita di cui godevano prima?
Nella cronaca qui narrata c’è spazio soprattutto per la società e per le persone che continuano, nonostante tutto, a nutrire sogni, primo tra tutti quello di lasciare il Paese che li ha ingannati. Dagerman sta sempre dalla parte del debole, dello sconfitto. È così che si trova a raccontare ma soprattutto a vivere le macerie, le città-fantasma, i treni gremiti che procedono lentamente, ma su cui la gente è costretta a salire per cercare lavoro o cibo. Tuttavia il nazismo continua a persistere tra la povera gente nelle buie cantine, nonostante l’umidità, nonostante la mancanza di cibo e lo squallore. Sarebbe molto utile affiancare questo reportage allo studio dei libri di storia, così rigidi e rassicuranti nella netta distinzione tra buoni e cattivi, le cause e le conseguenze, la provocazione e la vendetta, per capire come invece la realtà non abbia colori così netti, ma sfumature che ne smussano i contorni e i significati.
L’importanza della letteratura come testimonianza subentra all’inevitabile giudizio morale che consegue al racconto della storia mediato dai vincitori: è importante comprendere che categorie troppo definite non esistono prima che la storia le collochi nel proprio contesto, cioè prima che sia troppo tardi per evitare gli errori, le tragedie, i pianti. Solo un non-giornalista, giovanissimo ma già autorevole e molto analitico, umanissimo ma mai indulgente, avrebbe potuto narrare con tale trasparenza la forza di un popolo umiliato, totalmente sconfitto che cerca di risollevare il capo dall’inferno in cui si trova. Perché in tempo di guerra non c’è morale, non c’è bene e male, giustizia o assoluzione. Questo reportage non è mera testimonianza ma totale partecipazione: pagine – dense, necessarie e mai superflue – narrano un toccante itinerario tra le rovine, in quello che può considerarsi quasi un romanzo di viaggio. Il linguaggio, mediato dallo sguardo estremamente umano di Dagerman, è più lirico che giornalistico, senza che la poesia vada a intaccare la verità.
Recensione di Paola Lorenzini
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