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Banchieri. Storie dal nuovo banditismo globale - Federico Rampini - copertina
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Banchieri. Storie dal nuovo banditismo globale

Descrizione


La crisi economica scoppiata nel 2008 con il fallimento della banca d'affari americana Lehman Brothers sembra non avere fine, in Italia come nel resto d'Europa: nonostante i governi e gli economisti si arrovellino sulle misure da adottare, le aziende chiudono, la disoccupazione aumenta, i consumi crollano. E la responsabilità della recessione in corso è stata addossata, di volta in volta, al mercato dei mutui statunitensi - i famigerati "subprime" -, allo strapotere della finanza, al peso schiacciante del debito pubblico. Cambiando decisamente prospettiva, Federico Rampini non si chiede a "che cosa" imputare la colpa ma piuttosto a "chi", e senza alcuna esitazione afferma: "I banchieri sono i grandi banditi del nostro tempo. Nessun bandito della storia ha mai potuto sognarsi di infliggere tanti danni alla collettività quanti ne hanno fatti i banchieri". Dall'osservatorio privilegiato degli Stati Uniti, dove la crisi ha avuto inizio, Rampini racconta chi sono i banchieri di oggi, come abbiano potuto adottare comportamenti tanto perversi, assumersi rischi così forti e agire in modo talmente dissennato da provocare un'autentica Pearl Harbor economica, sprofondando l'Occidente nella più grave crisi degli ultimi settant'anni. E tutto questo, contando sempre sulla certezza dell'impunità. A pagare i loro errori sono infatti i cittadini dei paesi sulle due sponde dell'Atlantico, e il prezzo è altissimo: crescenti diseguaglianze, precarietà del presente, paura del futuro.
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Dettagli

2013
5 novembre 2013
166 p., Brossura
9788804633501

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Simone
Recensioni: 5/5

Veramente interessante e ben scritto. Piacevolissimo da leggere ti accompagna con storie di vita vissuta dall'autore stesso. Attuale, dinamico e veritiero.

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leonardo de chanaz
Recensioni: 5/5

Io leggo per spaziare, per divertirmi e apprendere. Rampini mi delizia con tutto questo, respiro New York attraverso di lui, ne sento il rumore. E' chiaro, conciso e vivo. Quel tanto di personale che ci mette dentro, mi piace, me lo rende umano. Bel libro, sopratutto per chi ha vissuto nel mondo della finanza. Manca una lacrima versata sulla completa scomparsa dell'Etica dalla finanza. Nel '71, ai corsi di formazione della Merrill Lynch per i giovani broker, la frase "L'interesse del cliente avanti a tutto", costituiva l'ossatura della formazione. Ora quel modo di pensare è scomparso del tutto, non si trova più da nessuna parte nel mondo. Se il business della finanza non si dà delle regole etiche, scomparirà in una guerra sanguinolenta fra squali chiusi in un acquario inutile.

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Claudio
Recensioni: 4/5

Libro d'accusa contro le banche o meglio i banchieri responsabili della grande depressione in cui siamo caduti negli ultimi cinque anni. Banchieri che ne hanno fatte di tutti i colori, ma che - ad eccezione di pochi casi - se la sono sempre cavata bene. E, anche quando le banche sono state condannate a pagare multe record, in pratica le hanno pagate i contribuenti.

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Voce della critica

  Invitato a parlare di banditi al Festival internazionale della storia, a Gorizia, Rampini ha trovato senza fatica un'evidente similitudine tra le avventure del vecchio Jesse James che svaligiava le banche dell'Ovest selvaggio e l'avidità rapinatrice dei banchieri d'oggi. "I grandi banditi del nostro tempo sono i banchieri", scrive con la franchezza del giornalista. Ma la similitudine s'accompagna a una differenza, non piccola: che mentre lo sfigato assaltatore del West alla fine doveva pagare le sue malefatte, questi banditi d'oggi si muovono con "la quasi certezza della loro impunità". Anzi, qualche riga dopo, cancella pure l'attenuazione di quel giudizio: "Nessun bandito della storia ha mai potuto sognarsi d'infliggere tanti danni alla collettività quanti ne hanno fatto i banchieri. Eppure, non uno dei grandi boss di Wall Street è finito in galera". Che è poi destino fortunato di cui, sia pur nel loro piccolo, hanno potuto godere anche quasi tutti i grandi boss del mondo finanziario italiano, nonostante che le loro colpe (i loro intemerati assalti alla diligenza dell'economia e della salute sociale del nostro paese) non siano stati granché diverse da quelle che Wall Street ha dovuto accettare e ripulire. La sola diversità sta, in parte, nella dimensione dei loro assalti, ma, soprattutto, nella complicità, assistenza, e servitudine, di un sistema politico che tutto gli consente e che ben poca pulizia ha voluto fare. La lettura del libro di Rampini si integra magnificamente con il libro di Gallino segnalato nella colonne qui accanto: il combinato disposto tra le due narrazioni traccia un inquietante profilo sul "banditismo globale", e detta un monito che mette in guardia su quanto la deriva delle democrazie d'oggi sia debitrice alla rinuncia che la politica sta facendo della propria centralità a tutto vantaggio della finanziarizzazione. Gli effetti più drammatici di questa rinuncia sono essenzialmente due: che si è ridotta la quota che il lavoro acquisiva nella distribuzione del reddito nazionale e, di conseguenza, si è prodotta una crisi nel processo della crescita, perché il potere d'acquisto di lavoratori e classe media si è indebolito a tutto vantaggio dei trafficanti di rendite. Si è allargata così l'ampiezza della forbice che rappresenta le differenze di reddito, mentre la dimensione speculativa delle attività finanziarie veniva fatta assorbire da un modello perverso che lasciava credere che il ruolo delle banche è sempre e comunque essenziale per la crescita dell'economia reale. Con il corollario che questa centralità finiva per pesare sulle povere spalle della società, costretta a salvare le banche "sempre e comunque". Scrive Rampini che "tutta la storia dell'economia occidentale dal 2008 in poi è una storia di socializzazione delle perdite bancarie". Qualche tempo fa, all'inizio della crisi che ancora oggi stringe a tenaglia ogni credibile progetto di crescita (l'Italia è messa molto male, ma ha comunque una compagnia affollata), nell'America che faceva fallire la Lehman Brothers si sollevavano voci perché nelle università di studi economici si rafforzasse lo studio dell'etica. Lo stesso "New York Times", che raccoglieva in prima pagina quelle voci, scrive oggi malinconicamente che "i banchieri non sentono lo stimolo della legge né quello della morale". E d'altronde, come non capirli se sanno bene che, alla fine, di tutta questa crisi di cui hanno larghe responsabilità nulla è stato fatto loro pagare. "Imperterriti, impuniti, colpiscono ancora". Gli effetti a cascata di questo "banditismo globale" hanno un risvolto che, non solo nel nostro paese, ha aperto un aspro confronto sul ruolo dell'euro come moneta-simbolo d'una condizione statica di crisi, e le responsabilità dei sistemi politici nella ridotta efficacia di gestione della recessione vengono proiettate sulla debolezza della moneta europea. Le reazioni sono, ovviamente, d'una furente carica a testa bassa, dove la razionalità dell'analisi cede facilmente agli umori più corrivi, usati con spregiudicatezza dalle frange più populiste dell'antieuropeismo. E l''uscita dall'euro viene offerta come soluzione d'una crisi che il concerto delle politiche governative comunitarie non ha saputo controllare. Rampini – un attento analista politico oltre che uno studioso di macroeconomie – lega lo scontro sulla sorte dell'euro al ruolo, ancora una volta, del "banditismo bancario", superando la strozzatura ingannevole che distingue tra banchieri cattivi (quelli che negano il mutuo e speculano con i prestiti che gli passa la Bce) e banchieri buoni (i governatori delle banche centrali, a cominciare da Draghi e, fino all'altro ieri, Bernanke). La distinzione è poco convincente, scrive Rampini, le porte girevoli (revolving doors) accompagnano le contaminazioni tra pubblico e privato, tra trafficanti della speculazione e gestori d'un progetto di controllo della crisi. La latitanza delle politiche di bilancio ha attribuito alla Bce, per esempio, un ruolo salvifico che però non ha potuto svolgere a pieno i propri effetti per le resistenze della banca tedesca ossessionata dal timore dell'inflazione. E, di nuovo, la centralità della finanza scaccia la centralità della politica.   M.C.

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La recensione di IBS

Permettete che mi presenti: mi chiamo Jones. Dow Jones. Assieme al mio compare Subprime, e con l’aiuto dei fratelli Lehman abbiamo messo a ferro e fuoco Wall Street, appiccando un incendio che si è propagato come un fuoco di stoppie in una prateria durante un’estate siccitosa e arida.
Ora i Lehman brothers non sono più con noi: pare li abbiano costretti a fuggire in fretta e furia da casa loro, dopo averli obbligati a infilare poche misere cose dentro scatole di cartone e a scendere giù in strada alla chetichella, come ladri nella notte. Possono essere tempi duri, è vero, quelli in cui viviamo.
Ma chi non risica non rosica, e il gioco cui noi stiamo giocando vale certamente la candela. Comunque, come spiega Federico Rampini in questo suo ultimo “Banchieri”, i rischi li corrono i bancari, non certo chi le banche le fonda o le amministra.
Già. Dal cuore pulsante della finanza mondiale, Rampini (corrispondente di Repubblica da New York) spedisce un dispaccio che è giusto sperare giunga a destinazione e magari riesca a scuotere un po’ di coscienze. Il libro, scritto in modo da essere accessibile a tutti, indaga sulle malefatte di quelli che ci ostiniamo a credere garanti di una stabilità che invece sono essi stessi a minare per primi, e sciorina sotto i nostri occhi un repertorio di nefandezze che nemmeno Barbanera nel Mar delle Antille durante l’età dell’oro della pirateria.
I superbanchieri sono i nuovi gattopardi, e sono talmente potenti e determinati a mantenere il proprio potere da riuscire a dettare l’agenda anche a quei politici che dovrebbero limitarne la vis predatoria. Se pure i “bankster” non hanno una benda sull’occhio e una scimitarra, non mancano loro potenti vascelli, a bordo dei quali compiere scorrerie 2.0 nei sette mari finanziari del mondo, né fanno difetto i galeoni capienti nelle cui pance stivare il capitale.
Capitale che, in mancanza di meglio, può essere fornito ai filibustieri direttamente dagli Stati che sono stati oggetto delle loro devastanti incursioni, com’è accaduto nel caso dei rifinanziamenti operati dal Governo statunitense in seguito ai tracolli del 2008, e secondo una linea ormai invalsa dappertutto, sotto il ricatto implicito della dottrina “TBTF: Too big to fail”, troppo grossi per fallire. Se pensiamo che istituzioni come JP Morgan Chase – fra le principali banche d’affari statunitensi – possono vantare bilanci con attivi di 2300 miliardi di dollari… beh, si capisce che una eventuale caduta da quelle altezze possa generare onde d’urto destinate a far tremare la terra. Ma se la terra trema, le acque non possono certo stare tranquille, e ventimila leghe sotto i mari corre un gigantesco cavo, un moloch di fibra ottica che collega le due principali piazze finanziarie del mondo, la City e Wall Street per permettere ai trader di guadagnare tempo nelle transazioni ad alta frequenza. Questa moderna declinazione del “ce l’hai” permette a chi indovini per primo la direzione dei flussi dei listini, di muovere gigantesche quantità di azioni nel giro di pochi millisecondi, esponendo così i mercati a oscillazioni che possono essere (e sono state, in almeno un paio di occasioni) catastrofiche.
Il vero focus di Banchieri, prodigo di storie come questa, è il racconto di come la crisi del 2008, che avrebbe dovuto segnare un’inversione di tendenza da parte delle istituzioni di controllo e degli Stati, abbia in realtà avallato – con le gigantesche iniezioni di liquidità da parte dei governi nelle banche a rischio di tracollo – una restaurazione dello status quo senza precedenti, permettendo ai superbanchieri di non ridistribuire quelle ricchezze di origine pubblica, e farne invece la base per il proprio ulteriore arricchimento.
Un accumulo cieco, indecente e irragionevole che per la ricchezza di pochi mette a repentaglio il diritto di tutti a condurre una vita dignitosa, ad avere un lavoro pagato il giusto, a poter garantire a sé e ai propri figli il diritto all'istruzione, alla sanità, a una pensione. Rampini è bravo a raccontare quel che accade dietro le quinte della crisi più devastante e pericolosa da molto tempo a questa parte, e non si tira indietro quando è il momento di fare nomi e cognomi. Il dispaccio è arrivato, forte e chiaro: sapremo raccoglierlo e trarne le debite conseguenze?

A cura di Wuz.it

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Conosci l'autore

Federico Rampini

1956, Genova

Scrittore e giornalista italiano, ha iniziato la sua attività giornalistica nel 1977 a «Città futura», settimanale della Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI), di cui era segretario generale Massimo D'Alema; dal 1979 scrive per «Rinascita», giornale che deve abbandonare nel 1982 dopo avervi pubblicato un'inchiesta sulla corruzione in seno al PCI. In seguito è stato prima vicedirettore de «Il Sole 24 Ore» poi capo della redazione milanese ed in seguito inviato del quotidiano «La Repubblica» a Parigi, Bruxelles e San Francisco. Come corrispondente ha raccontato dapprima le vicende della Silicon Valley; ha lasciato poi gli Stati Uniti per aprire l'ufficio di corrispondenza di Pechino. Ha insegnato alle Università...

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