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Uscito in una collana divulgativa, il libro non manca per questo di segnare una pietra miliare negli studi su Gadda. Sono indagati, segnatamente, i debiti di stile che il "Gran Lombardo" contrasse giovanissimo dalla lettura del Longhi di "Arte e Valori": dall'uso dell'epentesi chiastica in funzione demistificante alla frequenza, nella prosa dei due scrittori, dell'ellissi assiale, dagli echi delle sonorità di Crashaw (le traduzioni del giovane Longhi testimoniano, in tel senso, di una capacità di pastiche straordinaria) alla deissi desultoria, ma lampante, degli aspetti più iconici del narrato. Le lettere che, complice l'amico Contini, i due si scambiarono fra il 1931 e la fine della seconda guerra mondiale, Raimondi analizza a completamento di un'analisi già ricchissima: alcune di esse sono edite qui per la prima volta e non risultano repertoriate neanche nell'edizione critica (piuttosto discutibile e oggetto, a suo tempo, di una violenta diatriba su rivista) di Fausto Curi, studioso da poco scomparso.
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Ezio Raimondi, all'università allievo di Longhi, ha sempre trafficato con le arti figurative, negli anni ha girato per mostre e per musei con l'occhio vigile del conoscitore che è capace allo stesso tempo di trasferire la sua passione visiva all'analisi dei testi e, viceversa, trasfondere le sue competenze di letterato per svelare allegorie, simboli e metafore che spesso si annidano nelle pieghe della grande pittura. Una seconda attitudine raimondiana è quella di leggere romanzi e poemi come testi figurativi, rendendo agli stessi autori coordinate visive e segmenti plastici che essi assai spesso adottano senza averne piena consapevolezza. Così gli capita con Manzoni, con Musil, con D'Annunzio: così come risulta altrettanto rilevante scoprire come renda eloquente le immagini - siano esse iconografie sacre o profane - che nello specchio della sua competenza letteraria assumono nuovo turgore e lucentezza. Questo accade perché si pensa per immagini e non per parole come ricordò tra i primi Gian Battista Vico: a questo assunto Raimondi ha mostrato ascolto, anzi l'ha fatto divenire una linea guida del suo lavoro ed esso esemplarmente è distillato in questo libro , che riannoda i fili di una lunga peregrinatio nell'ambito delle arti figurative che inizia dal Seicento e si spinge fino al secolo breve.
Già nel titolo l'autore pone in evidenza due concetti che non pacificamente si possono associare: il barocco è una forma dell'arte che principia da quel 1630 a Roma che Yves Bonnefoy mise a titolo di un non dimenticato saggio e si protrae fino alla metà del Settecento; ma il suo barocco Raimondi lo qualifica come moderno e il moderno, "la modernità" nasce nel nome di Baudelaire e dei Salon che lui stesso introdusse in una splendida edizione dei "Millenni" Einaudi (1981). Dunque, per seguire il suo ragionare fin dal titolo dobbiamo chiederci se il barocco è moderno o la modernità è barocca. La risposta è decisamente affermativa: proprio a partire da Robert Musil e dal suo Ulrich, le cui vicende erratiche nell'epica grottesca dell'Azione Parallela sono prive di un centro e preludono a quella Perdita del centro (1948) che è titolo di un saggio di Hans Sedlmayr, parte viva di una grande tradizione di studi storico-artistici che ebbe per crogiolo la Vienna di Alois Riegl e Franz Wickoff. L'altro centro fu la Zurigo di Jacob Burchkardt e del suo allievo Heinrich Wöllflin.
Ma alla linea svizzera Raimondi sembra preferire la viennese e riegeliana che "ha il merito di dare al Barocco un'identità culturale che non implica alcuna decadenza"; non solo, ma essa è l'abbrivio per i contributi di Hans Tietze, Wilhelm Worringer, Theodor Lipps che le mani in pasta ebbero col futurismo e l'espressionismo. Anzi I metodi della storia dell'arte (1913, Lipsia) di Tietze assumono agli occhi di Raimondi una particolare pregnanza perché in essi "prendeva corpo e evidenza, con l'insistenza di un Leitmotiv, l'idea che allo studioso non fosse possibile penetrazione autenticamente feconda delle opere del passato senza un proprio legame con l'arte contemporanea." Nell'ellisse i centri sono due e l'ellisse è la figura geometrica canonica del barocco a partire da Bernini: l'ermeneutica di Raimondi si esprime in Guido Reni e Guercino, in Rembrandt e Caravaggio, in Longhi e Gadda che sono a loro volta centri di altre ellissi. Il Longhi di Raimondi rimanda a Riegl e a Tietze: infatti Longhi fu capace di connettere i primi studi su Caravaggio (1913) alle formule del "dinamismo plastico" di Boccioni sul quale scrisse pagine memorabili. Esse sono la prova evidente che per l'autore il giudizio estetico si differenzia nei diversi materiali: "Le forme figurative sono tutt'altra cosa dalle forme letterarie e verbali e dunque hanno bisogno di un proprio codice interpretativo".
Con sapienza Raimondi tesse questo disegno degli statuti teorici e interpretativi dell'arte barocca, ma - come in un arazzo - c'è un'altra faccia che non si vede nella quale i fili della contemporaneità si leggono nitidamente. Recto e verso, i due centri delle ellissi prescelte, la dinamica tra opera e pubblico, in una fenomenologia evolutiva che sa adoprare Bergson e Croce, Nietzsche e Benjamin, Riegl e Wőllfflin, Praz e Macchia, fino a Italo Calvino e Octavio Paz in un gioco di rimandi che può risalire al Velàsquez di Carl Justi e al Caravaggio di Longhi, per poi approdare per altra via a Cattaneo, a Manzoni e a Gadda secondo una visione nella quale la percezione antropologica e sociale assume una nuova sostanza estetica. Una sostanza che si risolve in quelle "equivalenze verbali" che è titolo del quarto capitolo di questo volumetto che possiede allo stesso tempo la compattezza di un testo teorico, la leggerezza di un essay e la agudeza di un Balthasar Gracián.
Le equivalenze verbali che mette in atto Longhi sono "le girandole metaforiche, le improvvise accelerazioni, gli spostamenti di registro, i giochi a sorpresa, le mescolanze anche di natura stilistica". Interagendo con la pagina di Longhi, Raimondi rende concreto un libertinaggio intellettuale e lessicale che contraddice l'accademico sobrio e sorvegliatissimo che riconosciamo in tante sue pagine: "Le forme sono nel tempo, sono problemi che si sviluppano secondo una logica interna e metamorfica" dice Raimondi, riecheggiando la formulazione teorica di Henry Focillon di Vie des formes (1943). Alle parole "conte e acconce" il vociano Longhi giungerà in pena maturità con quel Caravaggio nel quale si ritrova "un realismo diverso, dove ciò che contava era la profondità della percezione. La rappresentazione dell'aneddoto come fatto drammatico corrente" a cui corrisponde "una inaspettata ed estrema evoluzione nello stile critico di Longhi (...) uno stile più limpido, ordinato", quello che Raimondi felicemente definisce "il momento di classicità di uno stile non classico". La retorica del discorso longhiano si è lasciata alle spalle i "cataloghi nominali" degli anni dieci e venti e si dispone a quel "frammento realistico" che il Merisi esalta, però "attraverso la pittura si arriva quasi al reale, ma c'è sempre uno spazio di sicurezza. Le cose sono come distanziate nella situazione purificata della forma figurativa".
È l'orizzonte dell'estetismo vociano di cui si nutre Longhi a tenerlo al di qua di una linea che Gadda saprà superare e trasgredire. L'ingegnere attinge a una cultura "positiva" che si riconosce nel mito del Politecnico, inclina a un'ossessiva vocazione filosofico-matematica che trova in Leibniz il suo punto più alto di aggregazione e che si ritrova nelle Meditazioni milanesi. "A Gadda interessavano le conseguenze moderne di quel modello matematico e morale che (...) calato invece nella prospettiva di Dostoevskij, di Proust, di Freud avrebbe indotto meccaniche narrative e processi conoscitivi ben più traumatici e radicali". Per questo via Gadda imbocca una strada che può assomigliare a quella di Longhi ma che nei suoi romanzi assumerà una ben diversa sostanza. "L'atto del raccontare aveva per lui un fondamento pienamente etico, non nell'accezione moralistica ma in quella di una vitalità pulsionale e biologica". Gadda versus Manzoni trova nell'autore del Romanzo senza idillio (1974), nella Dissimulazione romanzesca (1990) un esegeta di perspicacia rara, dove si mette a fuoco la lettura caravaggesca dei Promessi sposi che Gadda per primo avanza contraddicendo la lettura "quietisticamente edificante" del romanzo.
Gadda è un autore la cui eloquenza borromaica è del tutto congeniale a Raimondi che ha compiuto mille sforzi nella sua vita per offrirci solo il verso manzoniano della sua personalità, ma c'è un recto che affiora prepotente proprio nei suoi scritti di storia dell'arte. Gli accostamenti di Raimondi sono procedimenti ermeneutici discreti, obbediscono al criterio fondamentale dell'interpretazione, che è quello non di soffocare, ma di esaltare per rendere più chiara, nel paragone, la voce di un autore. Un riserbo che è un'etica di comportamento nel privato e nel sociale che riconosciamo in Raimondi studioso del barocco: di qui la sua intelligenza nel connettere i fili di un Manzoni barocco che narra di una vicenda dalle tinte e dalle luci riberiane, disponendo il testo manzoniano in una prospettiva "fortemente inventiva, metaforica, barocca" del tutto originale, sicché lo stesso Merisi diviene il primo dei moderni. A conferma che l'essere umano pensa per immagini e non per parole, leggendo le tante pagine d'arte che ha scritto Raimondi viene alla mente la figura di un polpo che ha tentacoli e file di ventose prensili che si avvinghiano con straordinaria destrezza sui corpi di quest'arte barocca e della sua modernità.
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