"Supponiamo, perché assurdo, che io non sia mai esistito". E se una certa sera, tanti anni fa, una spaventosa nevicata avesse costretto a casa i due giovani che sarebbero poi diventati i nostri genitori, impedendo loro di conoscersi e poi innamorarsi? Con questa stravagante considerazione si apre l'ultimo libro di Lars Gustafsson, scrittore svedese di fama internazionale più volte candidato al premio Nobel, al solito prontamente tradotto da Carmen Giorgetti Cima per Iperborea. Anche stavolta il gusto per ipotesi paradossali, pungoli intellettuali e analisi filosofiche ‒ aspetti della scrittura di Gustafsson ben noti ai suoi lettori ‒ sono una componente essenziale del romanzo. Ma c'è molto altro. Un ex professore di filosofia del Magdalene College di Oxford, con la lucida intensità con cui i vecchi rievocano i ricordi, riporta in vita i frammenti dell'estate del 1954, nella nativa Vasteras, quando nella sua esistenza entrò la Signora Sorgedahl, la sua prima conturbante passione. L'impianto narrativo è esile: i diversi episodi, poveri di fatti, ma densi di riflessioni, sono unità circoscritte e autonome, al punto da meritarsi un titolo e una riga nel sommario, quasi il volume fosse una raccolta di racconti. In effetti il racconto si sviluppa per quadri distinti, simili a una serie di istantanee ingiallite nelle quali immagini, sensazioni, odori tornano a riaffiorare dal passato, pagina dopo pagina, come malinconiche ondate provenienti da un altro tempo. Il funerale di un vecchio professore, l'imponente tempesta estiva, le lunghe nottate trascorse nei locali della caldaia a discorrere di filosofia, musica e letteratura, il repentino e timido soccorso della giovane e graziosa Ingela caduta dalla bici, e poi, naturalmente, le bianche braccia dell'avvenente Signora Sorgedahl, travolgente e al contempo inafferrabile, costantemente presente eppure mai al centro della storia. Il romanzo è un mosaico fresco e delicato capace di evocare ineffabili suggestioni di proustiana memoria, scandite da un ritmo lento e morbido. Il tempo del racconto è rarefatto, non c'è azione né sviluppo narrativo: si tratta di un viaggio nostalgico e intenso nei ricordi, un confronto ravvicinato con il passato nel tentativo di dare un senso al presente. Eppure manca qualcosa. In assenza di una trama vera e propria il caleidoscopio di ricordi non è sufficiente ad avvinghiare il lettore alla pagina mentre le riflessioni teoriche, così centrali nel romanzo, non sempre costituiscono un flusso di pensiero armonico e convincente, risultando talvolta pretestuose e fini a se stesse. L'esito finale è un opera dalle premesse allettanti, decisamente riuscita in molte sue parti, ma dai tratti alquanto disomogenei e frammentari. Andrea Pagliardi
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