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L’avvio del romanzo è al modo di una conversazione che si è già cominciata e le parole son subito calde e sciolte in un linguaggio usato, di tutti i giorni cioè, arricchito di motti e sapienze popolari. Se si pensa che la storia è stata scritta alla fine dell’Ottocento, non si può negare che Zena ha saputo trarre dal linguaggio verista il meglio che sa resistere all’usura del tempo: “lasciandole sulle braccia una corba di figliuoli tutti piccoli”, “stanco frusto”, “una palanca che è una palanca” sono i primi biglietti da visita – ma se ne potrebbero raccogliere tanti altri da farne un libro a sé - di una prosa viva, radicata, ancora presente tra noi. Persona colta, lo Zena non ha mancato la scelta di uno stile che subito sa penetrare all’interno dell’ambiente e come una sonda suggerne e tramandarne tutti gli umori. Bricicca (Francisca Carbone), la “bisagnina” (erbivendola: ha un banco di verdura all’angolo della sua casa, e di fronte c’è la bottega della sua rivale, la Bardiglia), è una donna che nella vita ha dovuto arrangiarsi. Ha sulle spalle la disgrazia di un marito e dell’unico figlio maschio morti e finirà in galera per aver gestito un lotto clandestino (“seminario”). La storia riguarda il tempo che precede la sua entrata nel carcere di Sant’Andrea e sappiamo dalle prime righe d’avvio che uscirà anzitempo per una grazia del re e altre poche righe nel finale ci diranno del suo destino negli anni successivi alla scarcerazione. Tornando alla sua storia, deve badare a due figlie: Angela, già da marito, e Marinetta (Maria), “una giovinotta da darle la parte dritta”, capricciosa e viziata dalla famiglia: “le bolliva nel sangue l’invidia, la smania del lusso e dei divertimenti, e se non poteva sfogarla, ci lasciava le ossa”, e vivono in un quartiere poverissimo di Genova, la Pece Greca. Questi alcuni passaggi rapidi che ritraggono le due figliole: Angela: “le faceva torto il naso troppo lungo, voltato in giù verso il mento, come il becco delle civette”; Marinetta: “Un pellame bianco come la calcina vergine e li
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