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Pubblicata negli Stati Uniti dieci anni fa, esce ora in Italia, con un'ampia postfazione del curatore, la riflessione che Jameson ha dedicato a Bertolt Brecht. Alla popolarità delle messe in scene brechtiane nell'immediato dopoguerra, dovuta come suggerisce l'autore alla presenza generosa di una solida componente spettacolare, è seguito, dopo gli anni settanta, un effetto di saturazione che ha portato a frammentare l'opera del drammaturgo e a salvarne alcune parti a discapito di altre: le opere contro gli scritti teorici o singoli periodi della sua produzione contro altri.
Jameson, al quale si deve una riflessione rigorosa su cultura, storia e società, fondata sui principi della critica marxista e sollecitata dal confronto costante con il pensiero contemporaneo (di cui in Italia l'esito più celebre è forse il saggio Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, 1989), ci sorprende dunque nel pieno di quella che definisce Brecht-Müdigkeit, la stanchezza di Brecht, per riproporre una visione complessa e complessiva della sua opera, invitandoci a riflettere su quanto sia necessario ripensare oggi la dottrina brechtiana, in particolare il concetto di attività che ne emerge insieme al recupero del senso precapitalista del tempo. Più che la creazione di opere o di formulazioni estetiche che hanno contribuito a cambiare la storia dello spettacolo moderno, in una prospettiva marxista l'autore imputa al poeta di Augusta l'elaborazione sapiente di un sistema fertile e a tutt'oggi produttivo, al di là della nostra stessa consapevolezza: perché la sfida più interessante che nasce dall'analisi di Jameson non è tanto quella di tornare a Brecht, quanto piuttosto di renderci conto che non ci siamo mai veramente allontanati dal suo metodo.
Articolato in tre punti fondamentali che attraversano il sistema brechtiano (dottrina, centrato soprattutto sull'effetto di straniamento e sul processo di epicizzazione; Gestus, sul senso pedagogico e sulle forme che assume la narrazione; massime, sulla rappresentabilità del capitalismo), il testo di Jameson ha lo stimolante merito di ricostruire un'unità esemplare del corpus brechtiano: in un autore che premia soprattutto il senso politico della contraddizione come metodo, l'unità acquisisce però valore solo in quanto rende evidenti, per un verso, le tensioni dinamiche che producono e rinnovano l'organismo e, per l'altro, le relazioni con un pensiero contemporaneo che, nei confronti di tale organismo, ha contratto debiti numerosi e non sempre esplicitati. Quanto deve, ad esempio, il Barthes dei Miti d'oggi alla riconfigurazione attuata da Brecht del rapporto natura-cultura; ma soprattutto, quanto il concetto di epicizzazione, al di là dei cartelli o dei songs in cui ha preso forma specifica nella drammaturgia della scena, abbia continuato a operare nella nostra cultura.
Jameson ci riporta nel senso vivo e attuale della contrapposizione tra forma epica e forma drammatica: scegliere l'una piuttosto che l'altra significa privilegiare il luogo della Trennung della separazione dinamica dei singoli atti narrativi, della sospensione del tempo in divenire, della distanziazione fra attore e personaggio, fra personaggio e spettatore in quanto luogo operativo del nicht/sondern, della decisione e della scelta. Se questo predispone in generale le pratiche decostruzioniste sul testo, non possiamo fare a meno, a nostra volta, di riflettere, in una prospettiva più specificamente teatrale, su quanto gli anni recenti abbiano visto la scena configurarsi nel territorio performativo di quella "terza persona" della cui ineluttabile presenza a suo tempo Peter Szondi ci aveva già avvertito nel suo saggio La crisi del dramma moderno; e quanto la rappresentazione sia esplosa sempre più nella presentazione delle parti, nel mostrare i singoli momenti, il cui minimalismo non sempre è assistito, forse, dalle strategie del Gestus, dalla semplificazione della dottrina, dalla apoditticità delle massime.
Antonella Ottai
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