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Oltre trent'anni fa Edgar Morin scriveva che "prima degli déi e prima delle star, l'universo mitico, lo schermo, era popolato da spettri o fantasmi, veicoli della fascinazione del doppio. Progressivamente alcune di queste presenze prendono corpo e sostanza, vengono esaltate, originano déi e dee. E come certi grandi déi di antichi pantheon si metamorfizzano in déi-eroi di salvezza, così le star-divinità si umanizzano, diventano inedite mediatrici tra il mondo fantastico dei sogni e la vita quotidiana. (
) Il processo di affermazione dell'individualità umana avviene secondo un impulso nel quale entra in gioco l'aspirazione a vivere a immagine degli déi, e se possibile a eguagliarli". L'originalità e la forza del suo volume Les stars, che fece epoca, ha per decenni come intimidito gli studiosi di cinema di fronte alle tematiche inerenti la figura dell'attore e, più in generale, della recitazione.
In una produzione in tal senso davvero più che sporadica, si distingue il presente volume di Cristina Jandelli che, non senza sottolineare l'altro contributo decisivo fornito, sempre negli anni settanta, da Richard Dyer (il titolo del suo lavoro è Star), annuncia con decisione la novità del proprio contributo. Jandelli scrive partendo dall'ipotesi che "l'arte dell'attore cinematografico sia implicata non solo nel dar vita ai delicati processi empatici che scaturiscono dalla rappresentazione filmica dei gesti e dei sentimenti umani, ma anche nel prolungarne l'illusione fuori dallo schermo con la loro immissione nel circuito più vasto della comunicazione". E a tale proposito utilizza il termine illuminante di "personalità anfibie", per indicare quegli attori che vanno ben oltre la semplice interpretazione dell'opera cinematografica e diventano paradigmi di lettura di un'epoca, delle sue istanze sociali e dei suoi modelli culturali.
È il caso delle dive del muto italiano, che "si proposero al pubblico femminile come modello di un'emancipazione che investiva soprattutto la sfera dei comportamenti privati, mentre gli uomini restavano soggiogati dalla loro seduzione disinibita". Oppure il caso di Charlie Chaplin, "che ha deciso di far ridere il pubblico su un dramma collettivo trasformando allo stesso tempo, con la sua immagine di attore famoso, l'emigrante in un personaggio positivo, degno dell'attenzione e del rispetto che Chaplin chiedeva anzitutto per sé". O ancora di Anna Magnani, "un'attrice anticonvenzionale cui la frequentazione del teatro minore conferisce una spontaneità di accenti in felice sintonia con l'ambientazione popolare delle storie neorealiste". Fino ai casi più recenti, in cui "l'immagine divistica delle nuove star del cinema appare sempre più disciplinata dal culto della forma fisica, ma anche piatta e tautologica: segno visivo ispessito soli in superficie, anche perché i personaggi cinematografici del cinema postmoderno appaiono analogamente bidimensionali se non scheletrici". E se "l'unico tratto essenziale che li accomuna è una cinica, irriverente ironia", forse è perché si tratta degli indiscutibili paradigmi di un mondo che da un bel pezzo ha smesso di credere davvero in stesso.
Umberto Mosca
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