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Anno edizione: 2022
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Subito dopo l’Unità l’Italia si trovò a combattere una vera e propria guerra civile, quella per il Mezzogiorno. Una guerra che ebbe tra i protagonisti un brigante e un generale, Carmine Crocco e Emilio Pallavicini di Priola. Uno spavaldo erede del mondo feudale contro un baldanzoso aristocratico di spada, l’ultimo esercito dell’antico regime contro il primo esercito nazionale. Una storia che ancora oggi suscita emozioni e divide.
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Occorre riconoscere all’autore di aver scritto un testo appassionante come un romanzo storico, un’opera che descrive in capitoli alternati la vita di un malvivente (Carmine Crocco) e di chi gli diede la caccia (il generale Emilio Pallavicini), per poi giungere a parlare di entrambi nelle stesse pagine quando lo scontro diventa inevitabile. Il brigante si era formato alla scuola della malavita, ma ideò delle tattiche di guerriglia che verranno applicate dai rivoluzionari del secolo successivo; il generale, formato all’Accademia militare, ma con esperienze di guerra maturate nel corso del conflitto del 1856 fra la Russia e la Turchia e i suoi alleati, fra i quali il regno di Piemonte, nonché nella seconda guerra di indipendenza del 1859, riuscì a dimostrare una straordinaria elasticità di vedute, tale da fargli adottare innovative tattiche di contro guerriglia; in pratica, se il briganti potevano contare sulla loro mobilità e sull’aiuto della popolazione, spesso imposto con la forza e con il terrore, il fare terra bruciata intorno a loro, con gli arresti preventivi di familiari e amici, e il ricorso al pentitismo, furono i motivi del successo del generale, grazie anche al concorso organico e non improvvisato delle truppe regolari, della Guardia Nazionale e dei volontari. Aggiungo che Pallavicini da un lato attuò una politica volta a rassicurare i cittadini, con episodi anche eclatanti, come pubbliche fucilazioni di briganti, e dall’altro fece in modo che la popolazione avesse analogo timore di quello provato nei confronti dei malviventi. Si trattò di una guerra spietata, spesso senza prigionieri, in cui la ferocia di alcuni briganti fu estrema, come nel caso di Ninco Nanco, luogotenente di Carmine Crocco. Vinse lo Stato, molti delinquenti furono giustiziati, altri finirono in galera, spesso a vita, come nel caso di Crocco, che anche dietro le sbarre mantenne quella sua aria di superiorità a cui teneva tanto.
Grande la conoscenza anzitutto del contesto storico, che fa luce sulla varietà di forze in campo: non semplicemente i ricchi e i poveri, o peggio “i settentrionali” e “i meridionali”, come qualcuno dice oggi, ma unitari di vario colore, varia provenienza, anche locale, e di varia durezza nei confronti degli insorgenti da un lato, e dall’altro borbonici, briganti di mestiere o per scelta, pochi idealisti, e molti opportunisti, doppiogiochisti e, in mezzo, attendisti e vittime: tanti personaggi, tante storie. Vasta la documentazione, perfino archivi privati, filastrocche popolari e sopralluoghi personali. Un saggio che vuol essere anche opera di divulgazione (lo stile è spesso narrativo, numerose le foto e immagini d’epoca), ma che forse conserva un residuo eccessivo di burbanza accademica. Alla fine infatti si prende atto che oggi la vulgata nell’opinione comune è proprio il ritratto che il “generale dei briganti” Carmine Crocco fece di se stesso nell’autobiografia: quella di un eroe romantico, costretto alla ribellione dai soprusi e dalla miseria, versione già dimostrata falsa dagli storici all’inizio del Novecento. Ma allora perché, vista pure la natura divulgativa dell’opera, non smontare uno per uno i capisaldi della tenace versione revisionista del brigantaggio post-unitario? Perché ignorare le sue principali argomentazioni? Eccole, in breve: la “battaglia campale” di Toppa de Cillis, dimostrazione della forza e della natura “militare”, non brigantesca, almeno delle prime azioni di Crocco. Pinto si limita a citare “documenti inconfutabili” [sic] di Giustino Fortunato jr. che smonterebbero questa versione… Elencate poi le tremende e documentate violenze sui civili da parte di vari briganti, perché non discutere invece le stragi di Pontelandolfo, Montefalcione e Montemiletto, operate dall’esercito? Perché non citare almeno certe fucilazioni di 13enni, 14enni e 12enni, peraltro legali? Ultimo appunto, da imputare anche agli editor, una prosa non sempre impeccabile.
Buon saggio sui primi anni dell'Unità d'Italia e su quella guerra (civile) che si combattè tra la Basilicata-Puglia.-Campania e Molise tra il capo dei capi del brigantaggio ovvero Carmine Crocco e il generale sabaudo Emilio Pallavicini. Una guerra lunga che vide i due generali contrapposti mentre la storia dell'Italia assumeva nuovi contorni.
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