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È un film diviso in due "Il buco". Non nel senso di una divisione in parti o capitoli ma in quello di una separazione fra mondi, territori, universi e luoghi dello spirito. A cominciare dall’Italia che rimette in scena: quella del boom economico dei primi anni Sessanta. Nettamente spaccata fra l’industrializzazione galoppante del nord e l’arretratezza del sud. Nelle prime scene si vedono le immagini di una trasmissione televisiva del 1961 sul grattacielo Pirelli appena costruito in cui alcuni giornalisti salgono fino alla cima utilizzando il carello esterno dei lavavetri. È da lì che si parte, dal punto più alto dell’Italia in ricostruzione e dal nord del paese si scende verso l’estremo sud e poi ancora più in profondità, nelle viscere della terra. In questo brusco salto spaziale insieme al paesaggio a cambiare è soprattutto il tempo. Perché è un film sul tempo "Il buco", un’opera che prova a individuarne le diverse forme e strutture e che proprio attraverso il tempo, anche quello del racconto, costruisce un percorso emotivo e sensoriale. In questo senso il lavoro degli speleologi – donne e uomini che sprofondano verso un confine sconosciuto mappandone man mano i contorni – rappresenta il senso più sottile della riflessione sulla caducità dell’esistenza e sulla fragilità umana di fronte alla natura sottesa al film. Ma questo muoversi attraverso gli opposti, questo costruire il racconto per elementi contrastanti significa per Frammartino lavorare sull’estetica con la consueta, esasperata, meticolosità. Le riprese dentro la grotta, durate per più di due anni e che hanno richiesto un impegnativo addestramento a tutta la troupe, sono stupefacenti. Grazie anche alla fotografia straordinaria di Renato Berta il gioco fra buio e luce, e quindi fra il nero del sottosuolo e l’ocra delle lampade a carburo, diventa il vero tema visivo del film. Alto e basso, vita e morte e progresso e tradizione che domina tutto il racconto.
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