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Anno edizione: 2005
Anno edizione: 2006
Anno edizione: 2006
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confuso e improbabile. non si capisce dove finisce la realtà e dove comincia l'incubo. bravi quegli scrittori che disegnano meraviglie senza calpestare il terreno dell'assurdo.
per chi come me non ha mai visitato budapest, attraverso questo libro sembra di poterla vivere, di essere lì, c'è una descrizione meravigliosa del luogo, mi è piaciuto molto. l'autore resta comunque una garanzia. bel libro!
Scelto per caso tra gli scaffali di una biblioteca, scelto perchè stavo per partire per l'Ungheria, anzi, per Budapest stessa, e trovavo affascinante leggere un libro di cui questa città fosse protagonista. All'inizio, ammetto, ho fatto fatica a leggerlo, lo stile così particolare, così dirompente, senza interruzioni, mi ubriacava un poco, e mi perdevo spesso.Ma una volta tornata dal mio viaggio, nella calma del salotto, l'ho assolutamente divorato.Credo che questo libro meriti di essere letto anche solo per come è stato scritto. Mai visto uno stile così!E se mi ha colpito tanto tradotto, non oso immaginare come sia in lingua originale!Bellissimo il finale...personalmente mi ha sorpresa, turbata, colpita, incantata...
Recensioni
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La copertina è irresistibile. La classica vista della Bahía de Guanabara con il Pão de Açúcar sullo sfondo di un oceano tinto di verde sotto un cielo giallo, ma al centro, come un imprevisto, la parola Budapest. Se è l'incipit di un romanzo a dover catturare la curiosità del lettore qui, per così dire, l'operazione avviene già sulla soglia del testo. Qualcosa di simile era accaduto con Disturbo (Mondadori, 1992), il primo romanzo di Chico Buarque uscito in Italia, ma allora era per via dello stupore di trovare il nome del noto cantante brasiliano non associato a un disco bensì a un'opera narrativa.
In realtà Chico Buarque, giunto con Budapest al suo terzo romanzo ( Benjamin è il secondo, Mondadori 1999), non è mai stato estraneo al mondo delle lettere, non tanto perché figlio dell'illustre critico letterario Sérgio Buarque de Hollanda e non solo perché i testi altamente poetici delle sue canzoni sono spesso costellati di sottili rimandi letterari e di geniali incastri per cui qualcuno ha tirato in ballo Queneau, ma perché, a detta dello stesso Buarque, sin dall'adolescenza era convinto che la sua strada fosse quella della letteratura (intervista a "La Stampa", 14 maggio 1992). Il motivo è che, sempre secondo parole sue, il popolare cantante sentiva la necessità di scrivere in un modo più complesso di quanto non gli permettessero le canzoni, e il risultato è che da una quindicina d'anni a questa parte ci arrivano da Buarque più pagine che non ritmi di samba o di bossanova.
Nulla da eccepire circa il legittimo diritto, per una persona così eclettica, impegnatasi anche nel cinema e nel teatro, di esplorare nuovi territori della creazione artistica e di farlo con il piglio di uno scrittore navigato. Fin dal primo romanzo emergeva un utilizzo per nulla ingenuo dello stream of consciousness e la consapevolezza della necessità di una struttura solida cui la storia, vagamente onirica, fosse subordinata a costo di qualche eccesso di manierismo. Infine, inutile dirlo, il ritmo e la scansione del linguaggio riecheggiavano sonorità musicali. Lo stesso accade qui, con la differenza che l'amore per la scrittura e per il linguaggio sono al contempo il tema centrale di Budapest . Anzi, si può suggerire che è in gioco un romanzo nel romanzo.
Il protagonista e narratore in prima persona, José Costa, è una di quelle figure professionali alla cui esistenza non vorremmo credere, ovvero un ghost writer , autore di discorsi di famosi politici e di romanzi di grande tiratura per conto terzi, che si è condannato a coltivare nell'ombra (forse trasposizione simbolica dello scrittore segreto dietro all'icona del cantante Chico Buarque?) un amore smisurato per il linguaggio, che lo affascina tanto nei suoi aspetti morfologici, quanto in quelli fonetici. Ed è proprio la pura e semplice sonorità della lingua ungherese a rapire il protagonista durante uno scalo a Budapest, di ritorno da un improbabile congresso di autori anonimi. Questo colpo di fulmine darà luogo a una serie di vicissitudini che porteranno José Costa, alias Zsoze Kosta, a fare la spola tra due paesi - il Brasile e l'Ungheria - dividendosi tra due famiglie, due figli, due donne, due lavori perfettamente speculari, mettendo in gioco la propria identità, ripetutamente smarrita e recuperata, al di qua e al di là dell'Atlantico, sempre grazie alle rispettive magie di due lingue così lontane, diverse e affascinanti come il portoghese e l'ungherese.
Che si esca soddisfatti o meno da quest'ultimo romanzo di Chico Buarque, la cosa certa è che l'autore dispensa, lungo la narrazione, riflessioni che non possono non fare presa su chi si sia cimentato con l'avventurosa penetrazione di una lingua straniera ("non c'era modo di capire dove una parola cominciasse e dove finisse. Era impossibile staccare le parole l'una dall'altra, sarebbe stato come pretendere di tagliare un fiume con un coltello. Alle mie orecchie l'ungherese poteva essere perfino una lingua senza cuciture, non costituita da parole, ma che si facesse conoscere solo per intero"). Al contempo, per la gioia degli ammiratori della sua musica, il poeta Buarque dissemina generosamente il romanzo di aforismi che di per sé potrebbero costituire il nucleo di una delle sue canzoni, come per esempio: "Due persone vicine, immerse ognuna nel proprio silenzio, non resistono a lungo in equilibrio, uno dei due silenzi finisce per risucchiare l'altro", oppure "A differenza dell'amore, che tende sempre a straripare, l'amicizia ha bisogno delle sue dighe".
Vittoria Martinetto
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