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Cambiare la scuola. Educare o istruire? - Riccardo Massa - copertina
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Descrizione


Per cambiare la scuola bisogna uscire dai soliti schemi, in cui continuano a contrapporsi il primato dell'istruzione sostenuto dai laici e quello dei valori difeso dai cattolici. Ma occorre soprattutto un ripensamento radicale della ‘forma-scuola' – ormai priva di senso – per mutarne la struttura, superando la scissione tra dimensioni affettive e processi cognitivi. Un'analisi spregiudicata e penetrante, che affronta a tutto campo i discorsi sulla scuola riconsegnandoli a una nuova prospettiva pedagogica.

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Dettagli

11
2000
1 gennaio 2000
194 p.
9788842053613

Voce della critica


recensione di Bini, G., L'Indice 1998, n. 3

Come giudicare questo libro di quasi duecento pagine privo di note, che cita pochissimi nomi e neppur tutti pedagogici, comparso in una collana d'interventi qual è quella laterziana dei "Libri del tempo"? Un pamphlet non è: se lo fosse sarebbe da attribuire a una specie di brontolone che in nome del buon senso fa uno sberleffo e dice che il re è nudo: che cioè le proposte di riforma, la pedagogia accademica con tutte le sue illusioni di rinnovamento e i suoi tentativi di darsi veste scientifica, la didattica che crede di cavarsela con qualche ricorso alla tecnologia, e tutte le escogitazioni dell'ultimo quindicennio non incidono sulla realtà profonda, non umanizzano la scuola. Ma Massa è uno del mestiere: non respinge il ricorso al buon senso, e fa molto bene, ma scrive di pedagogia con piena consapevolezza teorica. Non è il suo neppure un saggio tradizionalmente inteso, non solo perché non ne ha la struttura tradizionale nonostante le quattro pagine abbondanti di bibliografia.
Se si può dire senza apparire lettori infastiditi perché costretti a sforzi supplementari: Massa dà sfogo a un tumulto di critiche, progetti e idee; torna, senza troppo preoccuparsi di apparire ripetitivo, sugli stessi temi, soprattutto sulla dicotomia cognitivo/affettivo, quasi per non lasciar nulla di non sufficientemente esplorato, vagliato e meditato. Non è la prima volta che accade di osservare che certi libri, dovuti alla penna di pedagogisti professionali come in questo caso, o a studiosi che lavorano in altri campi, sembrano dire cose risapute (ad esempio, qui a p. 37: "Per la ricerca psicologica più avanzata è un dato ovvio, evidente e acquisito che cognizioni e affetti, emozioni e conoscenze non sono versanti contrapposti ma aspetti intrecciati, coessenziali e costitutivi del processo di formazione".
Il fatto è che siamo davvero in una crisi generale dell'istruzione, dell'educazione e della scuola e occorre, per tentare d'uscirne, muovere da una riconsiderazione dei principi e dei fondamenti, perché proprio questi punti essenziali sono stati ignorati, oscurati da valanghe di pseudonovità ("americanismo di vecchio stampo", "curricoli e programmazioni", tecnicismo a cui si è contrapposto un moralismo predicatorio, e ancora, "un livello di analisi che sottolinea (...) il destino autoreferenziale del sistema scolastico", "proclami e circolari di politica scolastica") che naturalmente hanno bloccato anche la possibilità d'agire secondo "pratica e buon senso", e dosi massicce di "ossessione valoriale" oppure di "accanimento tecnologico".
Fra istruzione ed educazione, dice Massa, c'è "una vera dialettica e non un falso dilemma". Sono due aspetti diversi, ciascuno con una propria storia e una propria eredità culturale, filosofica, pedagogica, ciascuno con un "volto buono" e uno cattivo nel quale si leggono le degenerazioni: ambedue possono essere alienanti, comportare imposizione, inculcamento, plagio, mistificazione, ideologia. Ma nel loro lato buono sono necessarie e insostituibili. I laici, i marxisti (purtroppo non sono nominati e non possiamo distinguere se si tratta di marxisti per modo di dire) le hanno separate e hanno assegnato alla scuola il solo compito di istruire, mentre i cattolici non hanno seguito soltanto la via della predicazione moralistica (se non altro perché dispongono di molte riviste e case editrici e alcuni fra loro, dedicandosi con serietà alla pedagogia, alle scienze dell'educazione, alla teoria della scuola possono ricondurre quella didattica a unità e conquistare posizioni, talvolta davvero meritate, nella competizione per l'egemonia).
La critica, se colpisce principalmente la "polarizzazione tra emotivismo e cognitivismo", "moralismo" e "nichilismo" intellettualistico, non risparmia altri bersagli: la mania dei test, ad esempio, o l'incapacità di elaborare una "cultura scolastica" ben distinta dalla cultura extrascolastica, la mancata elaborazione d'un "codice simbolico della comunicazione didattica" e d'un canone, potremmo dire, delle "conoscenze imprescindibili", l'assunzione d'una didattica che in preda alle sue illusioni si pone come "variabile comunicativa indipendente rispetto all'organizzazione complessiva di un certo contesto educativo".
Massa vuole una pedagogia che riscopra la propria dignità di disciplina con propri oggetti di conoscenza, con una "radicalità teorica" capace di prendere sul serio l'educazione, di non considerarla più un "campo di sciacallaggio culturale e professionale, di convegni per adepti o chiacchiere televisive". Vuole che si presenti come filosofia dell'educazione? In certe pagine sembra di sì ("Bisognerebbe domandare ai filosofi, in particolare ai filosofi dell'educazione che sono i pedagogisti, di aiutare gli uomini di scuola a pensare l'educazione"), in altre vuole che questa disciplina possa darsi uno "statuto di scientificità" o tende a identificarla con la didattica ("pedagogia e didattica sono esattamente la stessa cosa") o l'accusa di "nutrire la nostalgia dei grandi discorsi di tipo morale".
Qui si dovrebbe fare chiarezza. La pedagogia come filosofia (e teoria politica) dell'educazione non ha da temere i grandi discorsi morali, dovendo proprio indicare fini e, se il termine non è troppo compromesso dalle rinunce di parte della pedagogia laica e di sinistra, valori. La sua "scientificità", poi, può riguardare il rigore linguistico e metodologico del suo linguaggio, non, si spera, la scelta di campi d'intervento, d'indagine, d'analisi, dove - sia consentito ripetersi - finirebbe per porsi come doppione epistemologicamente debole delle scienze dell'educazione (psicologia, sociologia, antropologia e loro suddivisioni). Le resta invece, accanto al suo ruolo di filosofia dell'educazione nel senso già indicato sopra, quello di epistemologia dei processi educativi. In questa veste e con questo compito potrebbe collocare nella giusta luce i risultati d'indagini scientifiche relative alla scarsa incidenza dell'istruzione professionale (scolastica) nell'occupazione (il Nordest che disprezza l'istruzione e la scuola non è la sola regione dove tutti trovano lavoro?); come filosofia potrebbe formulare in termini non retorici e privi d'ambiguità il principio civile e pedagogico che l'istruzione, la cultura serve a tutti per essere cittadini coscienti e per leggere e interpretare se stessi e il mondo.

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