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Camillo Pellizzi fu figura di intellettuale militante volta con coerenza a produrre e diffondere culture "per la politica" come strumenti tanto di consenso quanto di conoscenza e intervento nella società. Autocandidatosi al ruolo di critico esigente delle insufficienze di governanti e governati - ma spesso dei primi più consigliere (e talora sodale), dei secondi più educatore -, visse in pienezza tale mandato prima come "organizzatore" di istituti e ideologie per il fascismo e poi come pioniere della sociologia italiana (dei cui processi di istituzionalizzazione e accreditamento presso il mondo dell'industria fu protagonista nel dopoguerra).
Un volume a quattro mani ricostruisce ora in due ampi saggi la vicenda politica e ideale di Pellizzi: a partire dagli importanti compiti svolti per il regime - tra essi quello di operatore diplomatico-culturale nei confronti dell'opinione pubblica britannica a Londra dal 1920 al 1939 e di presidente dell'Istituto nazionale di cultura fascista dal 1940 al 1943 -, fino al ruolo avuto nelle scienze sociali dopo la guerra quale primo titolare in Italia di una cattedra di sociologia, direttore della Divisione fattori umani dell'Agenzia europea della produttività dell'Oece e fondatore e direttore della "Rassegna italiana di sociologia". Le dense pagine di Longo e Breschi ricostruiscono bene la ricchezza di tale itinerario intellettuale: l'"aristocraticismo", l'attualismo "contaminato" di cattolicesimo, il corporativismo tecnofilo e l'antisemitismo "anticapitalista" del periodo fascista; gli incontri con Burnham, Russell e Cassirer (autori tutti tradotti da Pellizzi nei primi anni del secondo dopoguerra); gli studi di sociologia linguistica e della comunicazione, nonché le riflessioni sulle human relations e su simbolo, rito e mito; le tematiche ecologiste, infine, accolte negli ultimi anni di vita.
In tale percorso costanti si sarebbero rivelati i tentativi di conciliare tradizione e pulsioni modernizzatrici (decisiva in questo senso l'esperienza inglese), le istanze "europeiste" e pianificatrici, la ricerca di forme di compenetrazione tra "politica" e "scienza" capaci di garantire alla prima supplementi di legittimazione e infine un forte substrato elitario e pedagogico (da cui ricorrenti ansie per l'"assenza di leadership " nel paese e la ricerca di forme di selezione e promozione della stessa). Pur scevro di nostalgie per il ventennio e pur avendo accettato la democrazia, Pellizzi restò insofferente verso l'antifascismo storico e il sistema "parlamentaristico" e "partitocratico" affermatosi dopo il 1945, spingendo talora il dissenso ai limiti dell'antipolitica e alimentando in tal senso, e non solo in nome dell'anticomunismo, la pubblicistica delle molteplici destre del paese.
Di tutto ciò, pur prestandosi a riserve in merito a singole valutazioni (come la disinvolta caratterizzazione in senso "rivoluzionario" del fascismo o la sottolineatura delle ascendenze "anarco-socialiste" e "liberali" nel pensiero pellizziano a scapito di quelle nazionaliste), il volume dà preziosa ricostruzione, finendo così anche con il lambire il nodo delle continuità culturali, oltre che biografiche, nello strutturarsi delle scienze sociali in Italia tra fascismo e postfascismo.
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