Chi, tra certi lettori di "Topolino", non si è mai chiesto "Perché Pippo sembra uno sballato?". Proviamo a rispondere prendendola alla larga. Il pittore e poeta dadaista Francis Picabia inventò, insieme al letterato Georges Ribemont-Dessaignes, la rivista "Cannibale" a Parigi, nel 1920. Ne uscirono soltanto due numeri. Per il numero tre toccò aspettare cinquantasette anni: uscì a Roma nel giugno 1977, e conteneva i fumetti di Stefano Tamburini (coautore del leggendario Ranxerox) e Massimo Mattioli (il più sperimentale del gruppo). Già nel numero successivo ai due fondatori romani si erano aggiunti i bolognesi Filippo Scòzzari e Andrea Pazienza, il primo fumettista tra underground e fantascienza per mille testate, da "Il Mago" a "Re Nudo", il secondo studente al Dams e autore del fortunato Le straordinarie avventure di Pentothal, che usciva per "Alter Alter". La storia è stata raccontata tante volte, e meglio di tutti dallo stesso Scòzzari nell'autobiografico Prima pagare, poi ricordare (Coniglio, 2004); ma ora (anche se non è esattamente la prima volta), con questo bel volume Fandango, possiamo passare dalla storia alle storie, anzi alle "sturiellèt", come le chiamava lo stesso autore, di Andrea Pazienza. Va detto subito che il volume mantiene molto più di quel che promette: le storie per "Cannibale" ci sono finalmente tutte, in ordine cronologico e ben stampate, con tavole a colori ritrovate e qui pubblicate per la prima volta; ma ci sono anche tanti annessi e (s)connessi, come Il partigiano (uscito in sei puntate per "Il Male" nel 1980), il capolavoro Francesco Stella. Vita e Gite, l'esilarante storia lunga Aficionados, qui nell'originaria versione in bianco e nero (c'è anche un inedito assoluto, a dir la verità, che però poteva rimanere tale). Sono le pagine giovanili di Andrea Pazienza, dunque; anche se, tutte le pagine di Pazienza, secondo il metro di oggi, possono definirsi giovanili: morirà a trentadue anni nel 1988, per overdose di eroina. Ma per molti versi sono anche le pagine più divertenti, anche se non le più belle ‒ per quelle bisognerà aspettare il primo, leggendario ciclo di Zanardi e la tragica, intensissima graphic novel ante litteram Pompeo. Basta leggere fulminanti sequenze come, appunto, Perché Pippo sembra uno sballato?, dove un Topolino spietato e aziendalista si avventura nel deserto per conto della Disney per recuperare Pippo, che ha gettato la carriera alle ortiche ("Quei films rincritineno i bimbi!") e si è ritirato nel deserto insieme a un manipolo di freaks a stonarsi di canne. Alla fine i dollari e la Disney vinceranno, ma Pippo, pur ripulito e sbarbato, non rinuncerà del tutto alle vecchie abitudini: "Ecco perché Pippo sembra sballato. Sembra sballato perché è sballato". Uno spettacolare frullato di cartoni animati, fumetto underground americano (Robert Crumb e i Freak Brothersdi Gilbert Shelton su tutti), un tratto debitore di Magnus (il versante grottesco di Alan Ford) e soprattutto del grande Benito Jacovitti, da cui deriva in parte anche l'altra grande invenzione di Andrea Pazienza: la lingua dei suoi personaggi. È un italiano contaminato, stralunato, che fa pensare a Folengo e Ruzante e Basile quanto a Gadda, Totò e alle macchiette della grande e meno grande commedia all'italiana: uno jargon irresistibile (provare a leggere Agnus Dei per credere). L'immediatezza del tratto "in presa diretta" e l'autobiografismo hanno inaugurato un modo di far fumetto che dura ancora oggi, ad esempio nell'efficace formula di Zerocalcare, che a tanti anni di distanza mi pare il più convincente erede di questo Pazienza. Ma in questo libro c'è anche il disegnatore eccelso e versatile, pensante ma spensierato, capace di "cambiare, assolutamente senza preoccupazione, registro, stile, grafia, strumenti di disegno, passando da un pennarellone enorme mezzo consumato a un segno sottilissimo, appunto nella stessa pagina o nello stesso disegno, fregandosene altamente della coerenza stilistica, e puntando invece solo all'espressività del segno". Sono parole lucide ed esatte, in qualche modo sorprendenti, visto che vengono da Milo Manara, un fumettista che ha imboccato strade lontane anni luce da quelle di Pazienza (si veda il bel Vita da Paz di Franco Giubilei, Black Velvet, 2011). Il dittico composto da Francesco Stella 1936 e Francesco Stella. Vita e Gite, con i pennarelli acquerellati e il tratto talvolta pupazzesco (i "nasoni alla Magnus") prelude non solo alle opere più ambiziose di Pazienza come Campofame, ma anche alle raffinatezze dell'ultimo Gipi (che qui firma la prefazione, riconoscendo il debito e sottolineando le distanze). Leggere o rileggere queste pagine datate tra 1976 e 1981 serve, oltre che a ridere di gusto, a ricordarci che in quegli anni, accanto ai cupi e integrati lettori di Karl Marx, esistevano per fortuna, anche gli apocalittici e disintegrati lettori di Carl Barks. Luca Bianco
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