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Anno edizione: 2017
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Andiamo con ordine. Partire anzitutto dall'assunto che siamo tutti una cosa sola. Secondo assunto, che la tecnica coincida con la Vita, per poi trovare la Vita nella tecnica, il circolo vizioso delle sociobiologie neopositiviste. Terzo punto, stabilire che non è il pensiero a fare l'esperienza, ma il contrario, e chiamare ciò "empirismo radicale". Colpo finale, stabilire che il "pensiero di non", chiamato anche pensiero critico, l'equivalenza tra pensare ed emettere giudizi, sia il male di chi non vive davvero, male che affligge la filosofia da tempo immemore. Dal giudizio nasce la nozione di causa ed effetto, in altri termini, di possibilità, anche questa un male, secondo il nostro cervellone rampante, debitore di pseudo-pensatori come Deleuze, Lacan e Nietzsche, per citarne qualcuno. La conclusione, implicita, è che non si debba pensare. L'esperienza, che esiste qui per sé stessa, stabilisce la regola da seguire. Il soggetto ronchiano deve piuttosto vivere nello "stupor", da lui chiamata anche "estasi", sintetizzata in un'efficace metafora: il pugile suonato. Tolto di mezzo il pensiero e l'individualità, svanite le possibilità di fare altrimenti da ciò che viene imposto da forze esterne onnipotenti, alle masse spetta una vita fatta di stati di shock a cui attenersi per fede. Riecco presentarsi di nuovo il vecchio sogno di tutti i regimi totalitari. Il darwinismo post-buddhista, il capitalismo che ha da tempo assorbito le vecchie menate teologiche, l'antropologia dei più forti, i destinati, che qui si mascherano da Natura Naturans. Il soggetto che insegna a fare a meno dell'IO, ma firma le proprie opere con nome e cognome. Il canone minore fa le cose fin troppo in grande.
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