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Anno edizione: 2025
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Il capitalismo di guerra è un insieme di protezionismo, interventismo, conflittualità commerciale (con Paesi rivali e anche alleati), in nome della sicurezza e della sovranità nazionale. Le pratiche della guerra economica sono diverse: vanno da quelle più ordinarie, come il controllo sugli investimenti diretti, le restrizioni alle esportazioni, sussidi ed erogazioni, a quelle meno ordinarie, come le sanzioni, gli embarghi, i cartelli, le restrizioni economiche contro Paesi in via di sviluppo o anche per limitare la mobilità degli scienziati, fino a pratiche più estreme, come lo spionaggio internazionale, i sabotaggi, i cyberattacchi. Il dato fondamentale che caratterizza l’attuale epoca politico-economica è un profondo cambiamento culturale: dall’interdipendenza economica come fattore di stabilità internazionale e del commercio globale come condizione sufficiente per la pace mondiale, alla critica della globalizzazione e alla crisi del commercio internazionale. In particolare, i detrattori della globalizzazione si trovano indifferentemente a destra e a sinistra degli schieramenti politici. Costoro disconoscono il fatto che, grazie alla globalizzazione, i ricchi, è vero, sono diventati più ricchi, ma anche i poveri sono diventati meno poveri: tra la fine del XX secolo e i primi venti anni del XXI secolo, le persone che vivono in condizioni di povertà sono passati da 2 miliardi a 700 milioni, le persone con un reddito inferiore alla soglia di povertà sono scese dal 38% al 9% della popolazione mondiale, popolazione che nel frattempo è passata da 5,3 a oltre 8 miliardi. L’Economist ha nominato questa epoca homeland economics. La pericolosa combinazione di protezionismo, sovvenzioni, ideologia interventista, hanno resolo Stato sempre più ambizioso e invadente.
“La storia ci insegna che, quando i popoli smettono di scambiare, allora finiscono per combattere”. Questa frase, posta proprio al principio del libro, ci catapulta direttamente al centro delle scelte di politica economica ed estera di questi ultimi tempi: non si parla più di integrazione, di globalizzazione, ma di sovranismo, di dazi, con conseguenze nei rapporti internazionali su larga scala. Gli autori sono chiari nell’esprimere il concetto: “I Paesi si stanno ripiegando su loro stessi, la politica economica viene per lo più condotta in nome della sovranità e della sicurezza nazionale e le occasioni di conflitto si moltiplicano”. Prendendo le mosse dalla storia recente, si arriva facilmente a dimostrare che “come il libero scambio prospera nella società aperta e rafforza la democrazia liberale, sovranismo economico e nazionalismo politico sono strumenti imprescindibili nell’armamentario delle autocrazie e concorrono a legittimare molte decisioni in senso illiberale”. Lo stesso titolo del libro riecheggia una situazione che sembra aver imboccato una via a senso unico: “protezionismo, interventismo pubblico, conflittualità permanente (non solo con Paesi rivali, ma anche con quelli alleati) in nome della sovranità strategica e della sicurezza nazionale”. D’altra parte la narrativa che ci viene proposta, anche dai media, è questa: “A forza di parlare di conflitti, di ripetere che non possiamo fidarci degli altri e dobbiamo attrezzarci per farne a meno, di invocare insomma che l’economia sia riorientata “come se fossimo in guerra”, inevitabilmente prima o poi troveremo qualcuno che penserà che tanto valga andarci davvero in guerra”. Insomma, lo scenario che ci aspetta non è ottimistico, speriamo in una inversione di tendenza che riporti i Paesi (soprattutto i grandi della terra) a ripensare le relazioni internazionali con maggiore apertura.
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