Pare che qualcuno scelga i romanzi sulla base delle invenzioni narrative e della complessità dell'intreccio, altri, pare, ricercano la leggibilità, la semplicità della lingua, che si faccia rassicurante e li culli per qualche ora della loro minuscola vita. Questi e quelli si perderanno, loro malgrado, un libro della potenza emotiva di Cartongesso di Francesco Maino, già vincitore del Premio Calvino 2013 e uscito ora per i "Supercoralli" Einaudi. "Romanzo invettiva" lo definisce la fascetta lancio, ma forse questo libro atipico, carico di una solennità spuria davvero rara, non è propriamente un romanzo, e forse non è solo un'invettiva. Cartongesso è una preghiera o, forse, un canto di prefica al seguito del lugubre feretro di morte. La storia di Michele Tessari, avvocato di Insaponata sulla Piave, già universitario solitario, poi necroforo, poi squattrinato difensore delle cause perse, si risolve in realtà nelle sue parole. E sono parole di fuoco che incendiano la pagina e piovono addosso al lettore, parole combuste che si scagliano sul Veneto, sui suoi abitanti, sui suoi ex-contadini arricchiti, arroganti e trogloditi, sui suoi avvocati senza umanità e senza giustizia, sull'"Itaglia" tutta e persino su se stesso. Ma la sua voce, tanto potente e segnata, una voce rabbiosa fatta di grandinate di parole, di interminabili elenchi come mitragliate per esecuzioni sommarie, è sufficiente a disegnare il personaggio con un'argilla impura ma autentica, che mescola la bestemmia all'eleganza, il turpiloquio al grande stile, il dialetto all'invenzione linguistica. E il personaggio è un uomo caduto, ucciso da se stesso, in un suicidio rituale sempre rimandato, attonito di fronte all'invivibilità della propria esistenza, e sorpreso dalla propria resistenza, dalla cocciutaggine di chi si intestardisce a vivere nel "bidé" del Veneto, di chi non ha scampo dagli altri, dal proprio lavoro, dalla pochezza della gente che lo circonda, perché forse non ha scampo da se stesso. Michele Tessari è malato e diverso: "io sono un ometto contorto, un attorcigliato, un intorcolato, una mano con l'artrite reumautoide, un ramo venuto su storto, un adulto cresciuto come un tubero, cioè dalla parte sbagliata, non verso il cielo, ma verso il centro della terra, sotterrato, oscurato e soffocato". Oppure è come gli altri: "Oggi penso che queste persone mi abbiano imprigionato dentro i loro ambienti mentali di cartongesso. Hanno fatto di me un complice debole". Forse è già morto: "Sarei riuscito a dondolare impercettibilmente da quello stupido platano in mezzo alla nebbia della campagna primigenia senza essere notato da nessuno". O forse è tutto questo insieme, essendo anche la controfigura di un Cristo blasfemo: "Se ci fosse almeno Pilato penso, che mi guarda, ci guarda, direbbe, sono sicuro: qual è l'incolpazione che portate contro quest'uomo? Io non trovo in lui colpa!". Perciò Cartongesso è una preghiera, perché esiste in virtù della solennità delle sue parole, che spesso si rifanno ai Vangeli, oppure esplodono in una comicità kafkiana, tragica, esilarante e allucinogena. È una preghiera per le sue parole ripetute, cantilenanti, ignare dei tempi narrativi e dell'affabulazione, intense dalla prima all'ultima pagina, sbraitate sottovoce in faccia a un Dio assente. Cartongesso però non è un'invettiva sociale come appare, non è una demolizione continua e insistita dell'arricchito Nordest, come vorrebbe fingere di essere dalla prima all'ultima pagina. L'interesse non sta nel fatto che si distrugga, come tante volte è accaduto, il ridicolo tessuto sociale e (dis)umano del Veneto, sta piuttosto nel fatto, assoluto e perciò disperato, che Cartongesso è il confronto di un uomo con se stesso, è il continuo umiliarsi di fronte a un se stesso ideale, onesto, corretto, incorruttibile, ma mai raggiunto, continuamente osservato da un luogo lontano e imperdonato. Il protagonista è malato e cerca una salute che non esiste, accusa il mondo che lo circonda di essere affetto da una cancrena mortale e inestirpabile, eppure quel mondo sprizza salute, vive e vegeta innegabilmente nella sua cecità immortale. Il punto di riferimento è lo Svevo della Coscienza di Zeno, citato un paio di volte, dal quale l'autore ricava l'ironia del ribaltamento, il ghigno menzognero, persino l'utopia apocalittica, aggiungendovi però una violenza volutamente scomposta e irrefrenabile, tutta sua, personale. Tecnicamente, questo libro è un oggetto narrativo non identificato, quella zona grigia tra realtà e finzione, tra diario e fiction. Eppure tra le pagine migliori ci sono quelle in cui emerge il colpo d'ala narrativo. E sono pagine che ripercorrono mitologemi e archetipi dell'io, il rito d'iniziazione, il doppio inesistente, l'utopia d'amore, svuotandoli di senso, ma rendendoli universali, ed elevandosi così a voce del dissenso, voce del dolore, di tutti noi che camminiamo accanto a lui dietro un feretro nel quale è deposto, vicino al Veneto defunto, il corpo oltraggiato e ucciso di Michele Tessari. E forse persino di Francesco Maino. Alessandro Cinquegrani
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