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Proposto per il Premio Strega 2020 da Silvio Perrella.
Mentre una coppia si disgrega e il loro bambino lotta con la dislessia, mentre Roma sembra abbandonarsi al declino e la borghesia alla propria insensatezza, la Natura va incontro a un cambiamento epocale. Un esordio originale e vigoroso.
«Luccone ha trovato in sé un bravo romanziere e lo ha tirato fuori» – Sandro Veronesi
«Un romanzo che scoppia di energia. La tristezza della discordia coniugale sulla faccia del figlio dislessico è lacerante, vivida. L'amicizia tra De Stefano e Moses è tratteggiata in modo meraviglioso. Sono dialoghi magistrali a portare avanti il romanzo, un romanzo notevole» – Percival Everett
«Tutto ciò che accade accade senza che ce ne accorgiamo»
I De Stefano non hanno mai affrontato la crisi del loro matrimonio e la rottura arriva in un momento inaspettato: quando lui ha ottenuto l'incarico lavorativo che sognava e Emanuele, il figlio amatissimo, ha superato il trauma della dislessia. Per il mondo che li circonda i De Stefano sono una coppia ideale: belli, benestanti, di successo, e questa patina gli impedisce perfino di dire ai genitori di lei che è finita. I De Stefano passano il capodanno da loro, come separati in casa, a fingere sorrisi e futuro. De Stefano trova aiuto nell'italoamericano Moses, suo collega di lavoro e amico, che lo ospita a casa e gli dà conforto, e il loro rapporto si intensifica fino a mettere in luce che Moses non è l'uomo che sembra. Come tutti i personaggi del libro nasconde un segreto che lo stritola. Né Moses né i De Stefano però possono prevedere ciò che sta per succedere: una tragedia che capovolgerà ancora le loro vite.Proposto per il Premio Strega 2020 da Silvio Perrella: «Propongo di candidare La casa mangia le parole di Leonardo G. Luccone (Ponte alle Grazie) al Premio Strega perché si tratta di un romanzo piuttosto singolare. Folto di pagine, innervato di utopie e tragedie, ricco di una scrittura spesso dialogante e polifonica, coraggioso nei temi, la sua singolarità è già coglibile dall’esergo scelto ad intonare il tutto: "Dobbiamo sempre dire la verità perché chi dovrebbe garantirci la verità ci racconta storielle consolatorie o ci sorride con la faccia da lieto fine". È una frase di Moses Sabatini, una persona in carne ed ossa che nel romanzo diventa un personaggio, affiancandosi ai colleghi della Bioambiente, la società che con lungimiranza dovrebbe progettare un tempo più decente per il domani. E tra i suoi colleghi figura anche l’ingegnere De Stefano, il quale vorrebbe separarsi dalla moglie, ma esita, esita; come esita la consorte, trascinandosi entrambi per le strade di una Roma smarrita. E nel frattempo il loro figlio Emanuele si scopre dislessico e deve affrontare un tragico e insieme poetico corpo a corpo con l’alfabeto. E mentre la pagine si accumulano il lettore viene introdotto sia nel mondo famigliare sia in quello lavorativo e sempre, sempre risuona implicita o esplicita la necessità di dire la verità. Ma chi saprà pronunciare le parole esatte senza inciampare negli ostacoli di un alfabeto beffardo e saltellante? Scritto al polo opposto della commedia, il romanzo di Luccone sviluppa con serietà e immaginosità i temi pressanti del presente e scortica a sangue vivo chi ci racconta storielle consolatorie. Non è usuale. E va preso in considerazione come tra i libri più originali e tragici della stagione.»
Meravigliosamente originale sia strutturalmente e stilisticamente. Una scrittura che esplora contemporaneamente i più intimi aspetti della relazioni umane e come si manifestano nel mondo in senso più ampio. Tra Boston e Roma, relazione romantiche e rapporti di famiglia, solitudine e parola, è un romanzo pieno di idee che si accumulano e risuonano in un modo che è sia bello e devastante.
Scordatevi la narrativa che gira e di cui parlano sui Social. Questo strano libro guarda di più alle grandi narrazioni europee e americane. Mi ha fatto pensare all'audacia della costruzione del MAestro e Margherita, ma anche alle Vite che non sono la mia e a Underworld di Delillo. E' scritto con un lingua impeccabile e ci rimani dentro per tanto tempo. Da sconsigliare a chi legge per distrarsi, qui serve concentrazione.
Un romanzo d'esordio notevole, una voce vera che guida il lettore lungo un terreno abilmente sfalsato. Luccone sa raccontare, ma soprattutto sa levigare senza smussare: un pregio sempre più raro.
Recensioni
Ci sono romanzi che bisogna lasciar sedimentare, una volta girata l’ultima pagina, prima di addentrarsi in riflessioni e valutazioni. La casa mangia le parole (528 pagine, 18 euro) di Leonardo G. Luccone, edito da Ponte alle Grazie, è uno di questi. Non è una lettura facile, chiariamolo subito: perché la struttura non è lineare, per le numerose digressioni che infarciscono il plot principale e che talvolta sembrano volerci portare altrove; e perché lo scopo dell’autore è quello di fotografare un (attualissimo) vuoto di valori, scavando nell’intimo dei personaggi, raccontando una storia apparentemente come tante.
Leonardo G. Luccone è all’esordio nella narrativa, ma il mondo dell’editoria è il suo mondo. Non solo perché ha già pubblicato (nel 2018, Questione di Virgole, per Laterza, libro che ha vinto il Premio Giancarlo Dosi per la divulgazione scientifica), ma anche perché da tanti anni traduce autori di lingua anglofona di un certo spessore, come John Cheever o F. Scott Fitzgerald, per citarne un paio. Quindi conosce le dinamiche dell’editoria, cosa può essere pop e cosa invece può diventare cool. E sa bene che il suo è un romanzo ambizioso che può essere facilmente considerato pretenzioso. Il limite è sottile, ma la sensazione è che a Luccone correre questo rischio non dispiaccia affatto.
Il romanzo si apre con una coppia – i De Stefano – che si accinge ad andare a trascorrere l’ultimo dell’anno dai genitori di lei. Per tutti sono una coppia ideale: affascinanti, di successo e con un figlio dislessico (Emanuele) che ormai ha quasi superato i propri problemi e sembra avviato verso una vita di normalità e felicità. Contrariamente a ciò che lasciano credere tra un aperitivo e un ricevimento, però, i De Stefano sono sull’orlo della rottura e, avvolti nella loro patina di ipocrisia, non riescono neppure a confessarlo agli intimi. Lei vive di apparenze, di mode, di inquietudini che rasentano il farsesco. Lui si lascia prendere dal lavoro e si rifugia nell’amicizia con il collega Moses, il personaggio più riuscito del romanzo, un italoamericano geniale, ambientalista convinto, dal passato misterioso e burrascoso. Sullo sfondo si staglia una Roma decadente (incluso il mondo culturale a cui lo stesso Luccone appartiene), una Roma corrotta e bacchettona, azzeccata metafora della crisi di valori che sta vivendo l’Occidente.
«Tutto ciò che accade, accade senza che ce ne accorgiamo» sentenzia ad un certo punto uno dei personaggi del romanzo, forse a voler sottolineare come le nostre menti siano spesso occupate da futilità rigonfie di doppiezza che scoppieranno come palloncini al primo botto della vita. Botto che arriverà nelle ultime pagine e travolgerà le paturnie personali di adulti immaturi, testardamente legati all’evanescente. E sarà la tragedia, che in tutta la sua tristezza, ridarà il giusto valore alle cose.
Quella di Luccone è una critica per niente velata all’inettitudine della borghesia che si accontenta di vivacchiare nella mediocrità, incapace di cambiare, di distinguersi (dei De Stefano non conosceremo neppure i nomi di battesimo), di evolversi, men che meno di aggiungere qualcosa al mondo. E il dito è puntato contro un’intera classe, soprattutto contro i figli della generazione del boom economico, quelli che si sono trovati la tavola apparecchiata, che hanno sguazzato in un benessere indebito, spesso raggiunto con merito e sacrifici enormi da parte di chi li ha preceduti.
La narrazione è atipica, subplot e salti temporali non sempre agevolano la lettura, al contrario dei dialoghi che invece risultano serrati e autentici. È uno stile originale e ricercato, quello di Luccone, che può anche non piacere: è giusto sottolinearlo, perché l’autore si affida al ricordo e consapevolmente abbandona sentieri sicuri, nel tentativo di stimolare il lettore, di spiazzarlo, di indurlo alla riflessione. Tra i personaggi del romanzo, dicevamo di Moses, il più riuscito, l’unico che sembra avere la forza di urlare nel deserto, quello che più degli altri incarna la dicotomia di fondo del romanzo stesso; Moses è quello che incuriosisce di più, anche perché si tratta di un personaggio reale immerso nella fiction.
Recensione di Giovanni Di Marco
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