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recensione di Traniello, F., L'Indice 1988, n.10
Verucci non sembra credere, da storico, alla cosiddetta rinascita del sacro. Vede la religione in rapido regresso. Le radici della secolarizzazione vanno a suo avviso ricercate in un generale fenomeno culturale, di portata epocale. Vede un cattolicesimo e una chiesa in crisi profonda, al limite della decomposizione: una chiesa che dopo aver combattuto vanamente contro i caratteri costitutivi della civiltà moderna, ha introiettato le sue contraddizioni e i suoi conflitti, una pluralità quasi illimitata di dottrine, di morali e di discipline. Fa appello all'opinione espressa vent'anni or sono dal teologo cattolico Congar per raffigurare la lacerazione del "quadro cattolico", anzi del quadro religioso, con i credenti "gettati in un mondo che, con la sua densità di vita e di evidenza, impone i suoi problemi": dove il problema di Dio per intere masse sembra eliminato "senza che spesso esso sia neppure discusso". Per altri aspetti, Verucci coglie gli indizi di un'intensificazione della fede religiosa, correlativa alla sua perdita di estensione; ma sembra escludere la possibilità di sopravvivenza o di rinascita della religione "come fatto della società", sistema normativo di etica collettiva. Il conflitto tra la chiesa e la civiltà moderna si è concluso con la vittoria della seconda.
Quest'insieme di giudizi che concludono il volume, ne offrono anche la chiave di lettura. Già allievo di Federico Chabod e autore di apprezzati studi sul cattolicesimo ottocentesco (tra cui un volume su Lamennais del 1963) e sull'Italia laica nel periodo dell'unificazione, Verucci si è ora proposto di ricostruire gli atteggiamenti assunti dalla chiesa e dai cattolici di fronte all'evoluzione del mondo moderno. L'ambito cronologico è quello compreso tra la prima guerra mondiale e il Vaticano Il, ma con un ampio sguardo sul post-concilio. L'area politico-religiosa è quella che una volta si chiamava Europa cattolica, più la Germania. Il centro dell'interesse è riservato al governo e al magistero pontificio, da Pio XI a Paolo VI, con un'ampia trattazione dedicata al concilio Vaticano. È un'opera ricca di spunti, ma lineare: forse anche troppo. La tesi che la percorre si avvale e in certo modo riprende e radicalizza diversi apporti della storiografia sulla chiesa contemporanea. Vi è evidente la traccia (e forse più che la traccia) di studiosi come Giovanni Miccoli, che molto ha insistito sul motivo ierocratico quale aspetto portante del cattolicesimo moderno; come Giovanni Alberigo e alcuni suoi allievi, indefessi critici dell'idea di cristianità come superfetazione storica di un autentico cristianesimo; come Èmile Poulat, indagatore della continuità, nella storia del cattolicesimo, del "modello intransigente".
La storia tracciata da Verucci è quella di una chiesa cattolica protesa alla realizzazione di un disegno di guida egemonica e autoritaria sull'intera sfera sociale, mossa da un costante impulso di rivincita su una civiltà moderna costantemente avvertita come ostile e sfuggente. Verucci, da storico avvertito, mette in luce anche il diverso scandirsi e articolarsi di un tale disegno, che resta tuttavia come un dato per casi dire strutturale. Non trascura le consistenti. differenze qualitative tra una linea di accordo con i sistemi totalitari, e i progetti di "nuova cristianità" di tipo maritainiano o pacelliano, connotati (specialmente i primi) da un deciso accostamento alla democrazia politica, ma per sempre orientati alla realizzazione di una "società cristiana" guidata dalla chiesa. Ciò implica, secondo Verucci, un limite invalicabile di natura strumentale nella pratica della democrazia. L'asse di riferimento resta, per la chiesa, il primato delle sue ragioni confessionali ancorché perseguito con diversi mezzi: le garanzie normative degli stati, i concordati, la cosiddetta animazione cristiana del temporale mediante movimenti e partiti cattolici, l'inserimento nel sistema occidentale capitalistico. Questa mai deposta pretesa di dominio ierocratico, che rende la chiesa particolarmente sensibile ai problemi di rapporto con i poteri degli stati, porta in sè i segni e le ragioni della sua sconfitta storica tanto da far apparire "la riconquista cristiana della società e dello stato un compito fallito", sommerso dalla "colata di lava" della secolarizzazione, dell'indifferenza e dell'agnosticismo.
In questa logica anche l'esperienza del pontificato di Giovanni XXIII presenta luci e ombre. Verucci rimarca la spinta innovativa proveniente da papa Roncalli, lo spostamento di accento da lui realizzato dalla riprovazione del mondo moderno ad una sua più profonda comprensione, i valori evangelici presentati come valori umani universali. Resta tuttavia irrisolta nel suo pontificato la contraddizione tra la pretesa di conservare intatta la tradizione del sistema dottrinale-istituzionale ecclesiastico e l'afflato di conversione applicato alla chiesa stessa e questo spiega il suo carattere parentetico. Una parentesi chiusa da Paolo VI, tornato, con alcuni aggiornamenti, al primato delle ragioni ecclesiastiche e autore di una normalizzazione cattolica che investi anche il concilio e ancora di più le sue applicazioni. Il concilio, a sua volta, pur mosso dalla percezione diffusa della crisi attraversata dal cattolicesimo, restò "a metà del guado" nel tentato attraversamento del fiume che separava la chiesa dal mondo contemporaneo. Ne derivò una situazione piena di ambiguità, messa a nudo dal travaglio post-conciliare e contrassegnata da un lato dall'estrema divaricazione di movimenti e di idee e, dall'altro lato, dal rilancio del tradizionale modello dottrinale e istituzionale e dai rinnovati progetti di ricostruzione di un impossibile ordine sociale cristiano.
Di fronte a un'opera così compattamente strutturata intorno a un'idea-forza sono possibili diverse reazioni. Si può essere tentati di spostare il confronto critico dalla storia del cattolicesimo e della chiesa ai caratteri costitutivi dello stesso fatto religioso cristiano e, in sostanza, al senso di una religione interamente deistituzionalizzata. Verucci sembra indicare l'ipotesi di una sopravvivenza del cristianesimo a dimensione umana e razionale, che lasci "sullo sfondo il richiamo alla religione trascendente". Si possono invece sottoporre a vaglio critico singoli aspetti o passaggi che risultano meno convincenti rispetto alla documentazione. Per fare un esempio, non sono personalmente convinto che i documenti di cui disponiamo legittimino n‚ una volontà ecclesiastica d'inserimento della "Germania nazista" nel cosiddetto blocco cattolico, n‚ una totale incomprensione dei caratteri ideologici della guerra hitleriana, n‚ l'immagine di un "cauto distacco" della chiesa rispetto alla Germania nazista soltanto a partire dal 1942. Ma si può anche, seguendo il filo stesso del racconto di Verucci e sfruttando il ricco materiale da lui sistemato, individuare la possibilità di altri punti di vista, di letture complessivamente meno lineari. Discuterei in particolare, con intenti costruttivi, l'applicazione storiografica dello schema di contrapposizione chiesa - mondo moderno. Si ha la sensazione che Verucci tenda a far proprio, rovesciandolo, uno schema che ha radici cattoliche e che appartiene profondamente all'autocoscienza della chiesa come uno dei suoi principali motivi apologetici. Il limite, da un punto di vista storiografico, di uno schema siffatto è di indurre a pensare la chiesa e la civiltà moderna come due realtà ipostatiche, i cui rapporti non possono essere rappresentati altrimenti che in base all'alternativa estraneità-cedimento. Con l'ulteriore svantaggio che almeno uno dei due poli, ma probabilmente tutt'e due, appaiono oggi mal definibili in modo univoco. Il superamento storiografico dello schema della contrapposizione bipolare non significa trascurare le ragioni, i tempi e i modi di un conflitto di culture, di istituzioni, di fedi, di pratiche e così via, ma ricollocarlo nell'interno di un'unica storia, per non rischiare di scrivere una storia sacra in cui la civiltà moderna tiene il posto della vecchia chiesa.
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