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Libro bellissimo con una scrittura scorrevole e deliziosa nel definire i tratti dei singoli personaggi e gli eventi. Mi ha ricordato il libro "Una storia semplice" di Sciascia che ho appena letto e questi due libri sono di molto superiori ai vai Camilleri. Da leggere.
Bello,anzi bellissimo questo libro di Sebastiano Vassalli. Scritto in una maniera quasi magistrale, ti mette dentro una suspence incredibile. Un voto altissimo a Vassalli che ha superato ottimamente l' esame.
Nell'esaminare le cose di Sicilia Vassalli non riesce ad avere l'ironia di Sciascia, ma l'introspezione non gli manca affatto: ha scritto un bel romanzo storico.
Recensioni
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recensione di Mancinelli, L., L'Indice 1994, n. 4
(recensione pubblicata per l'edizione del 1993)
Con "Il Cigno" Sebastiano Vassalli prosegue il disegno di rappresentare in forma di romanzo storico "il carattere nazionale degli italiani", come ebbe a esprimersi anni fa durante una presentazione della "Chimera", un libro che segn• una svolta rispetto alle opere precedenti, in particolare rispetto ad "Abitare" il vento e "L'oro del mondo", romanzi di rivolta e delusione. "La Chimera" portava la scena nella campagna novarese incupita da un'atmosfera pesantemente controriformistica, "Marco e Mattio" nella povertà contadina del Veneto postnapoleonico oppresso dalla pellagra, e ora "Il Cigno" si svolge nel mondo della mafia palermitana tra Ottocento e Novecento. Che nel suo terzo romanzo storico Vassalli abbia puntato la penna sulla mafia siciliana è, oggi, una scelta quasi obbligata, anche se questo lo allontana da una realtà sociale, per non dire geografica e di latitudine, a lui familiare. Se già "Marco e Mattio" lo portava su un terreno diverso da quello in cui Vassalli ha più profonde radici, "Il Cigno" lo costringe a un'incursione in una società che, pur non essendo cronologicamente molto lontana, è lontanissima tuttavia nel costume, nel modo di pensare, di parlare e di agire: questo anche se le azioni di mafia sembrano ripetersi immutate dopo cento anni, tanti quanti separano la vicenda principe del romanzo dai nostri giorni.
La storia comincia infatti con un omicidio di mafia commesso da manovali del crimine su commissione del Cigno, "galantuomo" palermitano di origine non nobile, ma di buon livello borghese, deputato al parlamento italiano. La vittima è il marchese Notarbartolo, che era stato per tredici anni direttore del Banco di Sicilia nella sede di Palermo, ed era depositario di segreti scottanti, truffe e illeciti vari commessi con il denaro del Banco e con la connivenza del governo Crispi. Caduto Crispi, il nuovo governo presieduto da Di Rudin si appresta a far luce su questi scandali, ed ecco che il testimone chiave, il marchese Notarbartolo, viene accoltellato sul treno che lo porta a Palermo. Sembra di assistere a una scena tratta da un copione antico e attuale, sempre invariato. Siamo nel 1893, e il romanzo prende le mosse da questo omicidio eccellente, per seguire puntualmente lo svolgersi dei fatti.
Su questi avvenimenti l'aderenza del racconto alla storia è accurata e persino puntigliosa, e il romanzo avvince il lettore con una forte vena narrativa e la sapiente orchestrazione delle scene. Qualche perplessità nasce dallo sfondo su cui si svolgono gli avvenimenti, da una Palermo illuminata per il ritorno del Cigno da "migliaia di lampadine colorate" - siamo nel 1904 -, o dal fatto che ragazze arruolate in paesi sperduti tra i sassi per servire la prostituzione palermitana seguano lo svolgersi degli avvenimenti leggendo i giornali locali - l'analfabetismo era totale tra i contadini e negli strati umili anche cittadini. Ma una perplessità ancora più grande nasce dalla descrizione del pranzo che il Cigno offre alla sua banda di mafiosi per festeggiare l'"ammazzatina" del testimone, in cui il mandante mangia e beve con la più bassa manovalanza che si abbuffa e si imbratta senza alcun ritegno come in una scena di film d'oltreoceano.
Veramente in una società di tipo feudale come quella siciliana di fine secolo era verisimile una tale promiscuità tra signori e picciotti? Veramente un capo-mafia, un deputato al parlamento, si sarebbe vantato in presenza della più becera manovalanza di essere il mandante dell'omicidio? È un aspetto su cui la mia perplessità diventa dissenso: la cultura meridionale e quella siciliana in particolare, era una cultura del silenzio, di poche parole indispensabili, quelle che non potevano essere sostituite dal gesto, e tutti sapevano che le parole hanno una forza troppo grande per essere sprecate. Quando poi c'era di mezzo un morto ammazzato, nessuno lo avrebbe pubblicamente insultato, non tanto per rispetto quanto per superstizione, perché sarebbe stata una sfida al suo spirito, una pericolosa evocazione, e perché le cose dette sono più reali e più grevi che le cose semplicemente fatte. Questa "sacra religio" era comune tanto ai signori, mafiosi e non, quanto ai contadini divenuti sicari per conto di quelli. L'omertà faceva parte di questa cultura del silenzio, e non era solo un atteggiamento opposto all'autorità inquirente, ma un modo di essere anche tra coloro che erano legati da un patto criminoso.
Ma questa cultura, forse, la si può conoscere solo per via familiare, o genetica, e non si può acquisire con la documentazione storica.
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