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recensione di Zucconi, G., L'Indice 1995, n. 6
La città è diventata la cornice che inquadra, e a volte ordina, studi di natura assai diversa; negli ultimi anni, specialmente in Francia e in Italia, è andata offrendo un terreno di confluenza a ricerche che affluiscono dallo studio dei gruppi sociali all'indagine economica, dalla storia delle tecniche a quella delle mentalità, dalle vicende dell'architettura a quelle della cultura materiale. Anche in questa raccolta di testi si incontrano studiosi di cultura e di estrazione molto diversa: storici dell'architettura e della città (di Genova) come Ennio Poleggi, cultori di storia sociale come Arlette Farge e Peter Clark, studiosi di forme urbane come Marcel Roncayolo e Jeanne Chase, esperti di 'milieu' urbano come Philip Benedict.
A partire da questo intreccio di competenze, i due autori ci conducono lungo una sequenza di quadri separati. L'itinerario si snoda attraverso alcuni "paradigmi storiografici dello sviluppo urbano": Londra nel XVIII secolo, New York tra Sette e Ottocento, Parigi del Secondo Impero, Genova cinquecentesca... Anche i due curatori hanno origine differente: Carlo Olmo, storico dell'architettura, ha studiato in particolare il paesaggio industriale; Bernard Lepetit vanta una formazione di storico e di geografo, essendo cresciuto alla scuola parigina delle "Annales".
Olmo e Lepetit camminano idealmente lungo il sottile crinale che divide due ambiti distinti. Quelli che, per tradizione (e un po' per pigrizia intellettuale), siamo abituati a considerare come i due grandi bacini storiografici della città: un versante è quello dell'indagine quantitativa ove si aprono le grandi praterie della demografia, delle scienze sociali, dell'analisi economica (il settore delle 'sciences humaines', quello stesso che sulla carta dovrebbe corrispondere agli interessi dello storico transalpino). Sul versante opposto si schiude il campo della descrizione qualitativa di una città verificata nella sua consistenza fisica, nella sua successione di pieni e vuoti, di edifici privati e di spazi pubblici, o comunque nei suoi contorni reali. Sono questi i territori ove tradizionalmente avvengono le scorrerie di architetti, storici dell'architettura, studiosi del bello e cultori dell'arte, prestati alla storia urbana.
Carlo Olmo ha affermato che la città si presenta agli occhi dello studioso soprattutto come una sequenza di oggetti. Una volta che lo specchio è stato incrinato, se non addirittura ridotto in frantumi, occorre ripartire dall'analisi dettagliata degli episodi edilizi; micro-storie, anzi ipermicro-storie.
Lo stabilimento Fiat di Mirafiori ci parla dei processi di taylorizzazione, razionalizzazione industriale in modo ben più esplicito di quanto non ci riveli il fiume di inchiostro versato sull'argomento; molto più dei saggi su fordismo e americanismo, quell'episodio ci parla della storia di Torino industriale.
Da questo punto di vista appaiono più significative le imperfezioni, le anomalie, gli scostamenti dalla norma: e comunque appaiono ben più produttive, sul piano della ricerca storica, rispetto a quello che ci può offrire il processo inverso, tradizionalmente legato alla ricerca di ideali di bellezza, di perfezione, di conformità al canone architettonico.
Forse ancor più delle grandi architetture tutti gli episodi edilizi che costellano l'universo urbano costituiscono perciò potenziali oggetti di attenzione storiografica. Secondo logiche e chiavi specifiche (secondo "un tempo e uno spazio proprio" dicono due autori), tutti appaiono in grado di incapsulare parti significative di una storia a tutto campo. Se Erodoto tornasse ad Atene, come provocatoriamente recita il titolo iniziale, dovrebbe forse ripartire da questi frammenti.
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