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Il volume presenta una ricerca, frutto di un'esplorazione archivistica, sulla stagione italiana del "riformismo possibile", cioè di quei disegni riformatori più o meno compiuti e incisivi che presero corpo tra il 1945 e il 1964 e, anzi, si addensarono nei primi anni sessanta, in coincidenza con il varo del centrosinistra. Nell'indagine, contratta e implicita in molti passaggi, i filoni del riformismo italiano sono ricondotti a tre matrici: socialista, democristiana, socialdemocratica. "Riformista (
) rimane osserva nell'introduzione Simona Colarizi nel linguaggio comunista aggettivo proibito fino al crollo del muro di Berlino". A dire il vero, per farlo digerire Occhetto aveva coniato il più accettabile "riformismo forte", parente delle togliattiane "riforme di struttura". Anche Riccardo Lombardi si sostiene in queste pagine aveva fatto appello a un "riformismo rivoluzionario", perché in ambito socialista si finiva spesso per imputare al riformismo una debolezza da superare. La dizione "riformismo rivoluzionario" allude all'impronta giacobineggiante dell'autonomismo lombardiano: non risale, però, agli anni delle infuocate battaglie congressuali del Psi. Malgrado un certo, non organico e non accettato, riformismo sia stato possibile, c'è dunque una riottosità del sistema politico e un disagio teorico a convalidare una linea moderna di positiva trasformazione dei rapporti di potere e delle relazioni sociali. Pinto si sofferma sulla Nota aggiuntiva al Piano presentata da La Malfa nel 1962: i socialisti si opposero a ogni tipo di "concertazione programmata" dei redditi: "Ancora una volta si registrava il peso di una tradizione ideologica che aveva prodotto questo riformismo anomalo". Fatto è che il riformismo in Italia ha sempre avuto bisogno di un aggettivo. Segnaccio.
Roberto Barzanti
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