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Un vero e proprio manifesto di libertà e resistenza
«Due ore e mezza appassionate, splendida colonna sonora, "tranche de vie" senza sconti nel Brasile qui e ora, un "one woman show" che non si dimentica» – Il Fatto Quotidiano
«Un grande romanzo in cui molti si risconosceranno» – Il Messaggero
«Memoria, resistenza, dignità, consapevolezza di sé sono i valori espressi con mano ferma da questo bellissimo film» – La Repubblica
Clara è un critico musicale e vive in un piccolo palazzo degli anni Quaranta chiamato "Aquarius" che si affaccia sullo splendido lungomare di Recife. Una compagnia immobiliare ha già acquistato tutti gli appartamenti dell'edificio per farne un grattacielo di lusso, ma Clara è decisa a non cedere la casa a cui è legata dai ricordi di una vita. Dopo i primi approcci amichevoli, gli speculatori ingaggiano una vera e propria guerra fredda con la donna, in un crescendo di violenza psicologica: abituata da sempre a combattere, Clara non ha intenzione di arrendersi, neanche davanti all'ultima, sconvolgente minaccia.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Un acquario dove galleggiare in tranquillità con i ricordi di una vita densa ma trasparente, cristallina. Un luogo protetto ma anche fragile insieme, dove nuotare come un pesce raro che fuori della sua acqua, o del proprio liquido amniotico, non sopravvivrebbe. "Aquarius" non è un film spettacolare ma sobrio, quieto. Ma la sua quietudine è solo apparente perché qualcosa di oscuro e potenzialmente distruttivo si agita nelle acque immobili della vasca, qualcosa di invisibile ma penetrante, che proviene dal mondo esterno. Nell’"Aquarius" svuotato di quasi tutti i suoi pesci, Clara sembra l’ultima esemplare di una specie in estinzione. E la sua ostinazione a fermare il tempo rappresenta una sfida al sistema dell’affarismo inumano, della spinta alla sottrazione e dispersione della comunità, alla trasformazione di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio, con conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi delle abitazioni, al vuoto opportunistico, nascosta dietro un sorriso gentile e accattivante da pubblicità, alla velocità opposta alla lentezza che permette contemplazione, riflessione, consapevolezza e mantenimento della propria identità. E la presenza fisica di Sonia Braga, meravigliosa attrice che incarna perfettamente questa opposizione, è fondamentale alla riuscita del film.
Recensioni
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È più spesso l’immagine che non i film a esprimere una volontà politica. A mantenersi intatta dove imperversa l’oblio (che, diceva qualcuno, fa parte dell’idea stessa di sterminio). La cosa difficile dunque per un film che intende portare un po’ di luce sulle zone opache del contemporaneo, è abbandonare il contenuto che (tuttavia) lo stimola e darsi una struttura, trovare un innesco architettonico oppure una fisica dei corpi, ricucire lo strappo (che al cinema è sempre fondativo) con l’immagine. È il caso di due film inaspettatamente (il primo) o inopinatamente (il secondo) usciti di recente nelle sale italiane: Aquarius di Kleber Mendonça Filho (Cannes 2016) e Alps di Yorgos Lanthimos (del 2011, ritardo su cui torneremo).
Una cosa per esempio è voler ricostruire determinati conflitti sociali che, a seguito di una crescita economica troppo aggressiva, hanno letteralmente spezzato in due il Brasile; un’altra è inoltrarsi sulla faglia lungo la quale si incrina (o si è già incrinata) la dinamica complessiva dei rapporti umani con l’idea visiva di documentare il progressivo deperimento, l’implosione che attanagliano (che snaturano snervano depauperano marciscono) il paesaggio urbano stesso, per cui gli uomini e le donne, già costretti dall’ineguale distribuzione delle risorse a guardarsi in cagnesco o a sospettarsi l’un l’altro, si trovano inoltre a non riconoscere né a riconoscersi più nei luoghi di nascita, nella città dove hanno sempre vissuto (in questo caso Recife, città costiera nel nord del Brasile da sempre protagonista dei film di Kleber Mendonça Filho) resa ormai un agglomerato anonimo e disarticolato, dove una casa di proprietà sul bel litorale cittadino, costruita e pensata ancora secondo un’idea di vita comunitaria e di semplicità delle linee, viene considerata improduttiva nell’ambito della catena di alberghi o del complesso residenziale adiacente e in costruzione, e dove se ci si incammina sulla spiaggia antistante si farà l’esperienza di veder scorrere ai lati tre quattro cinque città diverse e i relativi deturpanti cantieri fino a congiungersi sull’altra sponda con un’antica baraccopoli che tuttavia, forse perché più difficile da radere al suolo, ospita ancora un po’ di umana verità. Kleber Mendonça Filho, non nuovo a questo tipo di trattamento visionario-antropologico (ricordiamo il corto Recife Frio dove si racconta di un misterioso evento atmosferico che da un giorno all’altro trasforma Recife da nota località balneare a una delle città più piovose e fredde e senza sole del Brasile, travolgendo appunto tutta l’urbanistica locale e gettando la popolazione nel panico; oppure il lungometraggio d’esordio Neighboring Sounds, un tipico episodio di gentrificazione che vede un’intera classe media appollaiarsi in un nuovo quartiere e incaponirsi nella paranoia della sicurezza fino a diventare essa stessa ostaggio delle squadre di security privata pagate per proteggere i confini dell’area), ha qui la bella intuizione di affidarsi al corpo resistente della grande attrice brasiliana Sonia Braga, la quale non solo incarna la lotta di una generazione in difesa di valori come dignità rispetto e fiducia nell’altro, ma porta inoltre nel film una contraddizione ritmica, un’aria musicale, una lentezza se si vuole che confligge apertamente con la foga di costruttori agenti immobiliari e dei suoi stessi figli che non vedono quel che lei vede nella casa, e cioè la memoria viva di almeno due generazioni che lì sono nate e cresciute. Quel che non siete più in grado di vedere, sembra dire Kleber Mendonça Filho attraverso la storia di questa anziana bellissima critica musicale che sa cosa significa sopravvivere (il suo corpo porta i segni di un’asportazione del seno) e che non rinuncia a nulla di ciò che ha conquistato (che sia un salone certosinamente arredato nel tempo o la libertà a sessant’anni di chiamare un giovane gigolo per una notte d’amore), è appunto l’immagine in sé.
Nel caso invece si abbia l’intenzione di addentrarsi nel lato oscuro, in quella strana combustione di potere e libertà, tenerezza e crudeltà, solitudine e solidarietà tipica della Grecia, non è certo la via più facile quella scelta da Yorgos Lanthimos in Alps (e in tutti i suoi film) di semmai esacerbare le contraddizioni per arrivare a una messa in scena, o meglio a un corpo a corpo che rivaleggia su un piano surreal-parossistico estremo con ciò che risulta già evidentemente e lividamente sopra le righe nella struttura sentimentale o anche solo nella quotidianità della comunità nazionale in questione. (Si diceva dello strano caso di un film che, presentato a Venezia 2011 e da tre anni a più riprese trasmesso in tv nella sua versione originale sottotitolata su Fuori Orario-RaiTre, diventi atipica strenna natalizia della distribuzione italiana e per di più doppiato stavolta. Ovviamente c’entra il successo del precedente The Lobster con cui finalmente anche qui ci si è accorti di Lanthimos, ma insomma tanto vale ricordarci del nostro sempre profetico Gadda quando scriveva che «la memoria-media degli italiani non risale ad oltre 10-15 giorni all’indietro rispetto all’attimo vissuto»). Dunque anche la battaglia per la resistenza della memoria passa per la versione acida e perversa dell’elaborazione del lutto, che nel film diventa una sorta di zona franca e allucinatoria, dove sostituzione e scambio d’identità (un gruppo di persone denominatesi Alps si fa pagare per prendere il posto di un caro appena scomparso e lentamente questa procedura – nata sotto gli auspici di una dinamica sadomasochista che inoltre permea le decisioni e i rapporti interni al gruppo – devia verso un’ossessione autolesionista che lavora ai fianchi la realtà delle loro vite personali condotte così verso l’inesorabile implosione) non sono altro che i sintomi di un malessere più profondo e diffuso. Ma a Lanthimos non basta. Il set stesso è inteso come luogo del delitto. Menzogna che, in quanto tale, introduce l’immagine alla verità, proposta però come ferita non rimarginabile. Falso movimento, anzi proprio falsificazione – attraverso una sintassi che slitta freddamente fra ironia e cinismo – dell’atto stesso del vedere.
Eppure la cosa affascinante, e tutt’ora misteriosa, del cinema di Lanthimos è che quanto più spinge sull’esibizione del falso, risultando talvolta anche a rischio di auto-falsificazione, tanto più risulta non programmatico e istintivo (vale per l’esordio Kinetta e vale per il pluri-premiato Dogtooth). Gli attori per esempio: è così evidente il modo in cui Lanthimos se ne tenga a distanza, in modo da ottenere corpi presi nella loro pura brutalità, non certo l’auto-analisi più o meno cosciente del personaggio (che di solito è dei brutti film). E allora è una sorta di selvaggio smarrimento il punto filmico: una terra colpita da cecità universale, che corre inebetita verso il vuoto, metafora fraudolenta di se stessa, e dove l’immagine, giocando sul bordo di questa frattura apparentemente insanabile, usa i corpi come mezzi estremi di una fuoriuscita possibile.
Recensione di Lorenzo Esposito
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