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Anna Achmatova si conferma una grandissima poetessa, stile inconfondibile... un piccolo grande libro da tenere nel proprio comodino e da leggere ogni sera. Poesie emozionanti, edizione perfetta considerando il testo originale a fronte. Ho acquistato questo libro in vista dell'esame di letteratura russa. La consegna è avvenuta nei tempi previsti, il testo si presenta bene. Consigliato.
Recensioni
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recensione di Wainstein, L., L'Indice 1992, n. 5
In un saggio uscito alcuni anni or sono nel mensile "Novyj mir" il critico Viktor Zirmunskij sosteneva che la poesia di Anna Achmatova derivava da Puskin, ma non dalle sue liriche e dai poemi, bensì dalla prosa. È questa forse una delle chiavi per accostarsi all'opera della Achmatova, di cui Michele Colucci, nel conchiudere l'introduzione, loda: "...la fedeltà a una certa concezione della poesia, in cui l'abbandono è sempre compensato dall'intervento della razionalità... Rispetto all'ottobre è esistita per decenni una Russia più che antisovietica 'asovietica' oggetto o vittima ma in ogni caso mai soggetto di storia. Nelle sue espressioni migliori, essa rappresentava la sutura con il passato, le radici dell'albero il cui tronco era stato abbattuto. Di essa l'Achmatova è stata certamente una delle manifestazioni più alte".
Da questa introduzione a "La corsa del tempo", una raccolta che include molte delle liriche scritte tra il 1909 e il 1965 (un anno prima della morte) qui disposte per lo più secondo l'ordine cronologico della composizione e non secondo i temi, come usava la stessa Achmatova, risulta che i versi achmatoviani costituivano, in un'ampia prospettiva, qualcosa come un romanzo autobiografico, inserito nella storia. Vi si susseguono vicende personali, sentimentali, brevi episodi della vita quotidiana, echi degli avvenimenti, delle due guerre, delle repressioni, delle epoche di Stalin e Chruscev.
La Achmatova - ricorda Colucci - faceva parte di "una società vitale e in rapida evoluzione socio-economica, ma allo stesso tempo squilibrata e arretrata come quella di Nicola II", in cui però "gli spazi di libertà conquistati dalla donna potevano apparire relativamente ampi, in realtà erano circoscritti e fragili. Non a caso - prosegue Colucci - l'Achmatova è il primo nome femminile di grande rilievo che appaia nell'intera storia della letteratura russa". Immessa in questa situazione nuova, la donna si sente insieme un'intellettuale e una creatura ancora in balìa della precarietà: prova delusione, rimorso, invoca Dio e si considera "se non la vittima, comunque l'elemento passivo", è tuttora valida l'equazione amore = sofferenza. S'inscrivono quindi in un contesto più ampio le liriche solo apparentemente soggettivistiche, quando sembra che la Achmatova indulga alla rievocazione di vicende sue personali, mentre in realtà vi si riflettono, in modo geniale, delle esperienze significative, grazie ad "una poetica che... si nutre delle sue stesse contraddizioni interne". Talvolta si è tentati di pensare all'ironia scioccante di uno Heine: "Uscì vacillando... corsi dietro di lui... soffocando gridai... 'Muoio se te ne vai!' Lui sorrise calmo, crudele / e mi disse: 'Non startene al vento"'.
Se le prime raccolte, "Sera " (1912) e "Rosario" (1914) costituiscono una specie di "diario dell'anima" (e qui ancora Colucci pone in rilievo come l'essenzialità verbale, caratteristica della Achmatova, trovi "un parallelo ideale nella prosa europea di quei decenni, da Maupassant a Cechov") la prospettiva poi si allarga fino a riflettere la vita di Pietroburgo all'inizio del secolo con i suoi teatri, i cabaret letterari e, perché no?, i ristoranti. Ad un'altra vicenda sentimentale, quella con Isaiah Berlin, primo segretario dell'ambasciata d'Inghilterra in Urss, incontrato nel 1945, è dedicato quasi tutto il ciclo "La rosa di macchia fiorisce": "Mi hai inventata. Una così sulla terra non c'è, / non può esserci. / ...è l'ombra di un fantasma / che ti angoscia giorno e notte. / Ci incontrammo in un anno inconcepibile, / quando languiva l'energia del mondo, / tutto era lutto, tutto piegava sotto la sventura,/ ed eran fresche soltanto le tombe./ Senza fanali, nereggiava come pece il flutto della Neva, / una sorda notte si ergeva attorno come un muro... / Così, quando ti invocò la mia voce, / cosa facessi io stessa non capivo. / E tu venisti a me come guidato da una stella..."
Un altro dei tre temi cui s'ispira questa poetica è quello delle persecuzioni, che costituirono un vero e proprio 'Leit motiv' nella vita della Achmatova: fucilazione illegale del primo marito, il poeta Gumilëv, gli arresti e la condanna a morte (commutata in deportazione) dell'unico figlio Lev, lungo proprio isolamento e, nel 1949, un violento attacco di Zdanov, che colpisce anche lo scrittore Zoscenko. Seguono l'espulsione dall'Unione degli scrittori, il ritiro delle tessere annonarie e una campagna nei giornali. Le accuse ("rappresentante dell'oscurantismo reazionario e del tradimento... egocentrismo, nobiluccia con il suo erotismo mistico-religioso") mirano ovviamente ad estraniare del tutto la scomoda Achmatova dalla vita intellettuale sovietica. Nel 1950 scrive la raccolta "Frantumi", i cui versi vengono definiti da Colucci: "lacerati, quasi sconnessi, gonfi di immagini di cruda violenza, disperati": "Settemilatre chilometri... / non puoi sentire la madre chiamare, / nel fischio tremendo del vento polare, / nella stretta delle intemperie, / inselvatichisci, inferocisci: tu, adorato, / tu, ultimo e primo, tu, nostro..."
Gli accenti più alti echeggiano nel poema "Requiem", proibito in Urss fino al 1987, quando poté uscire nel mensile "Oktjabr"'. Qui non si esprime il dolore della sola madre ma, sin dalla prefazione in prosa, bellissima nella sua apparente semplicità - è un conciso dialogo tra una sconosciuta e la Achmatova, entrambe in fila davanti alla prigione - predomina il senso della solidarietà dal quale nasce il poema "Requiem". A quest'impressione di un dolore corale contribuiscono la varietà di ritmi e linguaggio, il tono ora elevato, poetico, ora popolare: "Diciassette mesi che grido, / ti chiamo a casa. / Mi gettavo ai piedi del boia, / figlio mio e mio incubo. / Si è confuso tutto per sempre, / e non riesco a comprendere / chi è una belva, chi è un uomo, / e se attenderò a lungo il supplizio..." O ancora "La sentenza", anch'essa del 1939: "E sul mio petto ancora vivo / piombò la parola di pietra. / Non fa nulla, vi ero pronta, / in qualche modo ne verrò a capo. / Oggi ho da fare molte cose: / occorre sino in fondo uccidere la memoria, / occorre che l'anima impietrisca, / occorre di nuovo imparare a vivere". Di questo clima fanno parte, o piuttosto ne sono la conseguenza, le quindici liriche del ciclo "Gloria alla pace" (1950) con le quali la Achmatova, secondo Colucci "verosimilmente salvò la vita al figlio" scrivendo per esempio "Là dove è Stalin c'è la Libertà / la Pace e la grandezza della terra!".
Il terzo tema è quello della guerra, accolta dalla Achmatova con un senso di profonda angoscia: "Invecchiammo di cent'anni e accadde / nel corso di un'ora sola". Ma durante la seconda guerra la Achmatova, chiamata a parlare alla radio, seppe forgiare dei versi patriottici: "...il coraggio non ci abbandonerà! Non ci spaventa cadere sotto il piombo, / non ci duole restare senza tetto, / ma noi ti salveremo, favella russa, / alta parola russa. / Ti recheremo pura e libera, / e ti daremo ai nipoti, ti salveremo dai ceppi / per sempre! "("Il coraggio", 1942). E seppe cantare la liberazione: "Puro vento fa fremere l'abete, / pura neve ricopre le campagne. / Più non ode il passo del nemico, / riposa la mia terra" ("Liberata", 1945).
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