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Narrazione dolce e pacata per Pavese in questi due racconti che definire perfetti non è esagerato. Non ero uscita entusiasta dalla lettura di 'Paesi tuoi' e 'Tra donne sole', ma questa mini raccolta (Il carcere e La casa in collina), ha disperso le nubi del dubbio che Pavese non incontrasse propriamente il mio gusto letterario: mi è piaciuto parecchio. La prima è una storia di confino densa e intima, che non lascia spazio a rievocazioni o sovrapposizioni di storie simili, perché lo spazio lo riempie tutto da sola, con i gesti lenti, misurati e rassegnati del protagonista. È l'introspezione e l'elaborazione di una condizione di vita forzata in una realtà strana e ovattata, che spinge a mediazioni e compromessi con la propria coscienza. Illustrata - attraverso la perfezione delle immagini poetiche - la via per la conquista di un 'inquieto equilibrio' e 'serena disperazione'; paura e desiderio di solitudine, di silenzio e di vuoto. «Stefano strinse le labbra con una smorfia, perché sentiva la forza crescergli dentro amara e feconda. Non doveva più credere a nessuna speranza, ma prevenire ogni dolore accettandolo e divorandolo nell'isolamento. Considerarsi sempre in carcere. Abbassò dalla sedia alla gamba indolenzita e riprese a camminare, sorridendo di se stesso che aveva dovuto atteggiarsi in quel modo per ridarsi una forza.» La casa in collina è un racconto scritto dieci anni dopo (1947-48), e non posso che ribadire l'altezza della sua prosa letteraria. Ai piedi della collina, c'è la Torino fumante di bombe. Strisciante e silente come magma, a poco a poco si insinua, emerge, prende forma e sostanza, l'idea di Resistenza e il suo richiamo. Ma qualcuno non risponde, infrattandosi ad aspettare abulico che la furia finisca. «Ne abbiamo colpa tutti quanti - dissi - abbiamo tutti detto evviva.» È l'opera matura di uno scrittore dalla vita anagrafica breve ma, a buon diritto, letterariamente assai longevo.
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