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recensione di Koch, L., L'Indice 1990, n. 1
"La fisiologia dà sull'infinito ", riflette ad alta voce la protagonista a metà del primo romanzo francese di Bianciotti. La schiva e dignitosa Adela'de Marèse sta consegnando al narratore, il silenzioso vicino di casa che è diventato il suo principale confidente, quella che crede la formula centrale della storia. I due hanno preso l'abitudine a colloqui sommessi e dolenti, del tutto fuori posto nel malfamato bar all'angolo della strada dove si svolge gran parte della vicenda. Nel bar, infatti, astraendosi ma anche alimentandosi dallo sfondo tenebroso e violento, Adela'de rivive il suo straziante passato: fino a risalire al nodo più serrato e segreto. Dal bar Adela'de si stacca per una fiduciosa avventura affettiva che la porterà alla disperazione e alla morte: prima dirigendosi verso una bambina torva e perduta, poi cercando l'amicizia di un altro naufrago dell'esistenza, un mite pensionato senza memoria, vittima e schiavo di una famiglia mostruosa.
La battuta di Adela'de serve ad affidare anche al lettore la chiave del racconto. Segnala, innanzitutto, la potente ossessione macabra e corporale che genera, come vermi da una carne corrotta, le inquietanti figure visive e tattili del romanzo. Tutta la storia si svolge, infatti, per così dire sotto la pelle, nel cavo tiepido e repellente all'interno della persona, in mezzo alle secrezioni, agli sfiatamenti, alle ottuse peristalsi della vita vegetativa. L'amore non è che un ansante mescolarsi di bave. Il pensiero e la religione nascono da "un teatro li contrazioni, di spasimi, di restringimenti, di subbugli ciechi, di triturazioni molli, di sfilacciamenti viscosi". L'individualità di cui si gloria la cultura occidentale si configura qui come una tavola anatomica a colori, dove si torcono e torpidamente si aggrovigliano membrane e mucose, tasche, condotti, rigonfiamenti, papille, villi, ventose. Il terna della putredine, che associa ostinatamente, cupamente, per tutto il libro la Carne e la Morte, assume una violenza visionaria quasi secentesca, che turba e contagia il lettore. Una profondissima, allucinata ripugnanza travolge le modeste storie degli uomini in una grandiosa danza macabra. Un'aggressività universale strazia e devasta rapporti appena accennati. Irrompono, lacerando il dimesso monologare delle due voci narranti, forti immagini di deformazione e di orrore: incubi, aborti, impiccati, ibridi, nani. Scene crudeli e grottesche che fanno pensare alla tradizione di Goya; quando non sembrano tolte invece al cinema espressionista, alle caricature di Grosz e di Dix. Le dita della bambina Rosette si stringono come grossi vermi sul collo del narratore. La mostruosa nonna contadina, ricordata da Adela'de come un malvagio ammasso di carne greve, gonfi a e sfatta, annega trionfalmente sotto la luna, nel brago dei suoi porci.
Ma la formula che collega infinito e fisiologia è anche un buon esempio dell'altro, e stridente, piano del romanzo: il commento. Un incessante filo meditabondo mette infatti in bocca alla casta Adela'de - per sua fortuna, almeno lei, "senza corpo" - al suo timido amico, e soprattutto al narratore (torbido tipo di melanconico voyeur cupido e fobico), aforismi metafisici e morali sussiegosi e benevoli, stanche citazioni letterarie, sentenze di generica pietà. La doppiezza continua del discorso, l'urto frontale fra racconto e commento che si smentiscono a vicenda non è l'effetto meno inquietante del libro.
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