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Un opuscolo settecentesco dedicato alle peripezie del male causato dal morso della tarantola.
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"Imparruccato", così il curatore di questo garbato e curiosissimo libro definisce lo stile del suo autore. E scherzosamente "imparruccato" deve essersi mostrato lui stesso, Adolfo C.López, insigne medievista e bibliofilo dei più fini, quando nel 1985 ha presentato alla Asociación de Bibliófilos de Barcelona l'originale a stampa del 1792 di questo testo, peraltro presente nelle Memorias pubblicate dalla Real Academia Médico Práctica di Barcellona nel 1798. Perché a voler dar retta agli esperti di antichi libri sembrerebbe che di un bellissimo falso si tratti, tale da suscitare sospetti proprio per la sua perfezione. Scherzo sottile e cortese, dal momento che ci mette sotto gli occhi un'operina preziosa, godibile, mossa dall'entusiasmo del clinico sperimentatore compiaciuto dell'arte sua. "Antonio Ruiz, un soggetto di cinquant'anni, temperamento sanguineo-bilioso, di mestiere pastore, (...) mentre dormiva in un campo vicino al pozzo di Patas, (...) il 2 luglio dell'anno scorso, 1790, più o meno verso la mezzanotte si svegliò, sentendo una puntura alla scapola sinistra"; il "soggetto", toccandosi la spalla, avverte sotto le dita un insetto, o un piccolo animale, intrappolato fra la pelle e la camicia. Fin qui lo stile è quello burocratico dei referti medici. Ma "non era passato il tempo di un credo, che qualcosa di simile a una freccia ardente, proveniente dalla puntura e diretta al cuore, lo obbligò a piegarsi in due". E già ci si avventura in un mondo che, sia pure nelle sue metafore, è ancora ben lontano dai lumi. È forse il parlare del pastore a contaminare il linguaggio del medico? Par di vederlo ascoltare attento il pover'uomo attanagliato dal dolore. A questo punto, stupefatto dall'insieme dei sintomi, e identificati i segni della puntura come quelli del morso di una tarantola, Doménech decide che "senza perdere tempo, fosse necessario applicare il rimedio della musica", pur temendo "il disprezzo e la burla con cui sarebbe stata presa la questione". E proprio la preoccupazione di guadagnare alla terapia la benedizione della scienza ufficiale lo spinge a sottoporre questa relazione all'insigne congresso di medici. Una spiegazione rigorosa e documentata è quello che ci offre, corroborata dalle osservazioni degli antichi e dei moderni. Una spiegazione che recupera al territorio della scienza le pratiche di una tradizione ormai dimenticata. Perché dunque la musica fa bene? Perché agisce sul corpo per mediazione dell'anima, tramite le particelle sonorifere o sonifere che, attraverso il nervo acustico, stimolano il sensorio comune. Di qui le sensazioni si diffondono "all'insieme della macchina", influendo sulle alterazioni che "il succo nervoso, la linfa e il sangue" ricevono dal morbo. Giacché il "veleno tarantolino (...) si comunica attraverso i nervi", e dato che per influsso della musica il succo nervoso può "muoversi in completa libertà", il giusto ritmo determina un cambiamento d'umore del paziente e contribuisce a "scacciare il timore della morte"."In questo stato il cuore salta e balla" e tale ballo interiore si comunica a tutto il corpo in una grande esplosione di gioia. Da dove viene il fascino che esercita su di noi l'idioma medico desueto, con il suo discettare di umori e di succhi, di spiriti corporei e di fibre? Forse quello così ben evidenziato dalla cinica penna di Guido Ceronetti in quel libro disturbante che è Il silenzio del corpo (Adelphi, 1979). È un linguaggio che riverbera una luce inquietante sulla medicina attuale, insinuando il dubbio che l'armamentario terminologico astrattamente tecnico dei medici di oggi possa, fra un secolo o due, rivelare un'altrettanto forte carica metaforica e magica in termini per noi asettici come "ormoni", "endorfine", "radicali liberi", "colesterolo". E, dopotutto, non li stiamo già usando noi, con infallibile istinto popolare, come amuleti e scongiuri per difenderci dal male?
recensioni di Nicola, M. L'Indice del 1999, n. 05
Doménech, medico catalano, fu testimone oculare nonché improvvisato (ma tutt'altro che ignaro) terapeuta di un caso di tarantolismo verificatosi in Estremadura nell'estate del 1790, risolto, secondo la tradizione, a suon di tarantella e di guaracha. La minuziosa descrizione, velata di garbata ironia, è un piccolo gioiello di prosa settecentesca.
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