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Il regista ritorna ai temi e alle ossessioni che da sempre animano il suo cinema, a partire da una trama imperniata sull’ennesima figura solitaria alle prese con il peso di azioni passate che sembrano impossibili da redimere. Il protagonista è un ex militare americano che ha scontato otto anni e mezzo di carcere per le violenze commesse sui detenuti di Abu Ghraib durante la guerra in Iraq. Divenuto un abile contatore di carte nel periodo di reclusione, egli trascorre le giornate passando da un casinò all’altro, dove si guadagna da vivere come giocatore d’azzardo professionista, limitandosi tuttavia a basse puntate per non attirare troppa attenzione. Una vita anonima e di routine che viene scossa dall’incontro con Cirk, figlio di un altro ex carceriere suicidatosi dopo essere stato congedato con disonore dall’esercito. il quale medita vendetta nei confronti del maggiore Gordo, addestratore del padre e dello stesso Tell rimasto però impunito. Il gioco d’azzardo come metafora di vita, dunque. Ma anche un esplicito atto di accusa contro le aberrazioni belliche statunitensi, quindi la denuncia di un Paese incapace di assumersi le proprie responsabilità se non addossandole a poche mele marce laddove «la cesta è il vero problema». Sono ancora le istanze di critica sociale e politica della New Hollywood, di cui Schrader continua a farsi portatore pur senza rinunciare al fiato religioso d’ispirazione calvinista tipico del suo cinema. Centrale rimane infatti il dramma della coscienza, dell’individuo con i suoi tormenti interiori, che sullo schermo Tell consegna significativamente all’intimità di un diario scritto, come già prima di lui l’Ernst Toller di "First Reformed". In una nuova parabola sulla colpa e sul perdono, dove la redenzione si consuma nel sangue e la sola salvezza risiede nella grazia. Una grazia che rimane dentro che appare e sparisce nei rapporti umani, nell’apertura all’altro e nel risveglio dei sentimenti, come sotteso nel toccante finale del film.
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