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L'ho letto in un giorno: dalla mattina alla sera senza riuscire a staccarmene o a distogliere il pensiero dai personaggi. Conosco Giulia, ne conosco solo degli aspetti e leggerla è stata una rivelazione sebbene da tempo avessi capito di quale e quanta profondità è capace. Man mano, visto che li ho, leggerò gli altri. Da una recensione è emerso che Madrigale l'ha vista supererare se stessa...forse, com'è bene che sia, ricomincerò da lì...anche se il vento caldo del Garbino mi intriga non poco...
La storia mi ha talmente coinvolta che l'ho letto tutto in una sera. Data la brevità è più un racconto che un romanzo vero e proprio, ma sa come toccare il cuore. Consigliato soprattutto alle lettrici.
Sono le quattro. La sveglia trillerà fra meno di tre ore, ma ho dovuto cominciare e terminare il libro stanotte. Pareva una disamina psicologica, un’attenta ricostruzione del dolore da abbandono. Poi, il colpo di scena finale e, ancora più profondi, i due epiloghi, sprazzi di altre storie possibili.
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Giuditta, una traduttrice romana intorno ai quarant'anni, incontra a una cena l'architetto Luca. Ne sono trascorsi venti, di anni, da quando si è sposata con Federico, fra di loro "la passione è finita" ma è rimasta una buona amicizia, una solidarietà profonda di coppia consolidatasi grazie alle abitudini e alla reciproca, fisica, distanza. Luca è un guitto, uno sciupafemmine che finisce per travolgerla, occupandole l'intera vita. Quando il loro rapporto pare avviarsi verso un approdo pseudoconiugale - una bella villa affittata da Luca a Saubaudia che fa da teatro agli amplessi, la cura per il giardino che sembra nascondere il desidero di un figlio, il viaggio a Lisbona - Giuditta scopre di essere stata ingannata. Nella vita di Luca esiste un'altra, quella che lui non lascerà mai, quella che gli garantisce anche materialmente la sopravvivenza. Giuditta che aveva speso tutte le sue parole, esaurito tutte le sue storie - come Sheherazade - per tenerlo avvinto a sé, che si era fatta parola per trasferire il mondo intero dentro le comuni stanze, crolla. Anzi precipita in una spirale di depressione, incapace di accettare la sconfitta, l'abbandono definitivo. A nulla valgono i tentativi delle amiche, delle care zie, dello psicoanalista, Giuditta è sorda, respinge sistematicamente ogni forma di consolazione, bandisce ogni possibile lenimento. Fino alla tragica chiusa.
Niente di nuovo, niente di strano, niente che si possa aggiungere alle infinite variazioni che modellano il più classico dei mélo. Un'idea di amore terribile, metafora estrema dell'umana, compiaciuta, volontà autodistruttiva. Eppure, nel testo, sono disseminate delle spie che funzionano come antidoti per permettere al lettore di non farsi coinvolgere fino in fondo. A cominciare dal nome della protagonista, Giuditta, che inequivocabilmente, soprattutto nel finale, richiama la biblica fanciulla assassina, una figura assai rappresentata nella storia dell'arte secondo diverse interpretazioni e tradizioni iconografiche, da Giorgione, da Caravaggio, da Artemisia Gentileschi, e nel novecento da Klimt. La furia di Giuditta è una furia entrata nel canone come canonico è l'invito al lettore a seguire la sua vicenda, a entrare nel suo dolore che via via si fa universale, codificato, preannunciato sin dall'inizio del romanzo. Se i nomi significano qualche cosa, il finale di morte contenuto in quello della protagonista, l'ossessione amorosa, lo stile della relazione concorrono a riscattare una certa forma deteriore di romanticismo ripercorrendone i modelli.
Giulia Alberico, al terzo romanzo e dopo la pubblicazione di una lunga intervista a Massimo Girotti, amico gentile che si ritrova in una breve apparizione nel romanzo in veste di testimone, opta per la stilizzazione del sentimento. Non ingannino le apparenze: le dichiarazioni "Come è sana la solitudine, come è bella", la radicalità del collocarsi contro, l'urlo, le declinazioni del nero, appartengono al copione. Un romanzo scritto come se fosse vero e che vero non è. Ovvero la standardizzazzione del sentimento.
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