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È difficile leggere un saggio sul sogno ad opera di un laico (cioè non analista) così profondo e allo stesso tempo dotato di tale leggerezza da poterlo leggere d'un soffio, in uno stato quasi onirico. Ciò non significa che l'autore non entri a volte negli aspetti più scientifici del sogno, quando scrive, ad esempio che "il sogno [è] un fenomeno che sfugge ai controlli della coscienza, ma carico di responsabilità perché su di esso si concentrano le proiezioni personali e collettive delle inquietudini umane", o quando afferma che i simboli possono variare da un'epoca all'altra, da soggetto a soggetto, da cultura a cultura. A volte si azzarda persino a criticare (giustamente) Freud e la sua idea che il sogno sia sempre l'esaudimento di un desiderio. E non si può dargli torto quando denuncia la tentazione attuale di attribuire un significato a tutto, al punto che si è prodotta una "nevrosi semiologica" che non si arresta di fronte ad alcun ostacolo.
Certo, il sogno è un contenitore straordinario di idee e immagini, e aveva ragione il poeta Saint-Pol-Roux che, prima di addormentarsi, appendeva alla porta della sua camera il cartello: "Lo scrittore sta lavorando". E lo sapevano bene i surrealisti, per i quali il sogno e l'arte originano da una medesima matrice inconscia, anche se Malerba è perplesso che il risultato possa essere rilevante dal punto di vista estetico.
Ha senso, a questo punto, trascrivere i propri sogni come in un diario notturno e sotterraneo? Io credo di no, poiché mancano di un contesto, l'unico in grado di dare un significato al sogno. L'autore è prudente a questo riguardo quando afferma di avere messo i suoi sogni "in rapporto con i fatti, i discorsi, le immagini e le occasioni che possono avere influito sulla loro formazione", nella convinzione che molti sogni siano un prolungamento della vita quotidiana. Giusto. Ma le cose si complicano quando l'autore si domanda, con Gaston Bachelard, se l'uomo è determinato dai suoi sogni più che dalle sue esperienze. Ma che cosa sono i sogni se non la rappresentazione di esperienze (anche traumatiche) che il soggetto ha vissuto a partire dalla sua infanzia e che hanno caratterizzato la sua storia affettiva ed emozionale? È in questa misura che il sogno diventa un teatro privato in cui ogni notte il sognatore si rappresenta i suoi drammi. Come un regista che sceglie "figure e ombre a forma di uomo o di donna, di umani intravisti per la strada o di personaggi famosi (...) sradicati dal loro contesto e collocati in un album di rapporti disponibili, svincolati da ogni impegno reale. Amori e baruffe, erotismi e violenze, giochi, beffe e denudamenti, balli e pianti: è questo il luogo della totale irresponsabilità, della minima utopia sociale".
Ma è proprio vero che il sogno non ci rende responsabili? O non è vero il contrario, come la psicoanalisi ci insegna, quando il sogno diventa metafora di verità, desideri, paure, angosce, difese rispetto alla separazione, alla solitudine, all'esclusione, ai sentimenti di invidia e di gelosia? Quando il sogno si struttura come ponte che collega le nostre esperienze attuali con quelle di un tempo attivate dal transfert? Se è "una finestra aperta sulla parte invisibile e sconosciuta dell'universo" non può che essere il rivelatore più profondo del nostro mondo psichico e per questo fonte di responsabilità. Credo lo pensi anche l'autore quando, riferendosi alla psicoanalisi attuale, pone il sogno come esperienza cognitiva fondamentale, nella sua dimensione epistemologica come fonte di conoscenza di sé e del proprio rapporto con il mondo. Con una sua storia molto antica, se è vero - come dice Geza Roheim - che l'età del sogno precede l'età del mito e della favola, mito e favola essendo nati dai sogni delle popolazioni primitive.
Una riflessione dell'autore degna di nota è quella relativa al cattivo rapporto che il sogno ha con il riso: "sembra la conferma che i sogni provengono dagli 'abissi dell'inconscio', luoghi dove non si ride mai". Parafrasando Henry Bergson, che parla di pace profonda solo negli abissi marini, potremmo dire con Malerba che anche il sogno proviene da questi abissi, dove c'è "pace senza gioia, sicuramente senza mai il conforto di una risata". Ed è in virtù di questa profondità, lontana dalla realtà, che il sogno non rispetta le leggi dello spazio e del tempo, né quelle della gravità o della non-contraddizione. Esso è dotato invece di una bi-logica, come dice Ignacio Matte-Blanco, cioè una logica aristotelica o asimmetrica (dove è rispettato il principio di non-contraddizione) e una logica non-aristotelica o simmetrica (dove questo principio non è rispettato). È forse in virtù di queste proprietà che il sogno è un laboratorio dove viene conservata la "sapienza primordiale" e dove "possiamo essere (...) uomini della preistoria e uomini del futuro, possiamo trasgredire tutti gli schemi di spazio e di tempo, sfuggire alla geometrizzazione e misurazione del mondo alla quale ci ha abituati l'illuminismo positivista dei nostri anni".
La cura del sogno a Pergamo nell'Asclepio costituisce una chiosa a chiusura del libro. L'Asclepio costituisce il luogo di incontro tra grecità e romanità, dove "pratiche di autoterapia verbale (recitazione declamazione canto) erano alternate a bagni caldi e freddi e a corroboranti esercizi fisici". Sono terapie che anticipano lo stesso lettino e che costituiscono una preparazione a un buon sonno e a buoni sogni. Il lavoro interpretativo su questi ultimi è parte integrante del processo terapeutico che si basa sulla possibilità di collegare il sogno allo stesso stato fisico e psicologico del particolare paziente che si rivolgeva all'Asclepio. Attribuendo a ciascuno di essi la responsabilità per i propri sogni, come si legge in un famoso epigramma di Petronio Arbitro: "Sogni, o sogni, che divertite la mente con le vostre ombre svolazzanti. Non i santuari degli dèi, né essi stessi, gli dèi, dal cielo li mandano, ma ciascuno a sé li finge".
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