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L'abuso che si fa del termine "competitività" e la confusione che da tale abuso scaturisce spingono ad approfondire la discussione sul perché si compete e con chi. Su questo punto, assai diverse sono le impostazioni teoriche, e differenti i comportamenti politici che ne conseguono. Si passa dal rifiuto intransigente di chi legge la competizione come fonte di nuove e più profonde diseguaglianze all'adesione entusiastica di chi vede nella competizione una finalità in sé.Entrambe queste visioni non sono accettabili. Competere significa innanzitutto permettere che ciascuno faccia ciò che sa fare meglio, contribuendo così all'utilizzo più efficiente delle risorse di cui un sistema dispone. La competizione è dunque un mezzo per migliorare le condizioni di vita, e non un fine in sé. Nello stesso tempo una collettività, per utilizzare al meglio tutti i suoi talenti senza forme di emarginazione, deve interpretare la competizione come un "competere con l'altro", mai contro l'altro. D'altronde, etimologicamente, competere significa cercare insieme. Per far questo occorre che si diffondano e si accrescano i valori della coesione, della condivisione, dell'accoglienza. In altre parole, occorre che cresca il concetto di comunità. Comunità e competitività sono due valori che si integrano a vicenda. Nessuno dei due deve prevalere. Sostenerne uno solo vuol dire perseguire politiche non all'altezza della sfida.Sostenuta da una lucida visione teorica, e appoggiata all'esperienza concreta maturata quale titolare di importanti dicasteri economici, la riflessione di Enrico Letta prende le mosse da queste premesse per toccare alcuni tra i temi più scottanti della discussione politica italiana: le privatizzazioni, le liberalizzazioni, il rapporto tra tecnologie e ambiente, le diverse dimensioni di scala della decisione politica, fino a toccare le grandi questioni del commercio internazionale e della ripresa del round negoziale del Wto in una nuova logica di equilibrio Nord-Sud.
L'abuso che si fa del termine "competitività" e la confusione che da tale abuso scaturisce spingono ad approfondire la discussione sul perché si compete e con chi. Su questo punto, assai diverse sono le impostazioni teoriche, e differenti i comportamenti politici che ne conseguono. Si passa dal rifiuto intransigente di chi legge la competizione come fonte di nuove e più profonde diseguaglianze all'adesione entusiastica di chi vede nella competizione una finalità in sé.
Entrambe queste visioni non sono accettabili. Competere significa innanzitutto permettere che ciascuno faccia ciò che sa fare meglio, contribuendo così all'utilizzo più efficiente delle risorse di cui un sistema dispone.
La competizione è dunque un mezzo per migliorare le condizioni di vita, e non un fine in sé. Nello stesso tempo una collettività, per utilizzare al meglio tutti i suoi talenti senza forme di emarginazione, deve interpretare la competizione come un "competere con l'altro", mai contro l'altro. D'altronde, etimologicamente, competere significa cercare insieme. Per far questo occorre che si diffondano e si accrescano i valori della coesione, della condivisione, dell'accoglienza. In altre parole, occorre che cresca il concetto di comunità. Comunità e competitività sono due valori che si integrano a vicenda. Nessuno dei due deve prevalere. Sostenerne uno solo vuol dire perseguire politiche non all'altezza della sfida.
Sostenuta da una lucida visione teorica, e appoggiata all'esperienza concreta maturata quale titolare di importanti dicasteri economici, la riflessione di Enrico Letta prende le mosse da queste premesse per toccare alcuni tra i temi più scottanti della discussione politica italiana: le privatizzazioni, le liberalizzazioni, il rapporto tra tecnologie e ambiente, le diverse dimensioni di scala della decisione politica, fino a toccare le grandi questioni del commercio internazionale e della ripresa del round negoziale del Wto in una nuova logica di equilibrio Nord-Sud.
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