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Conflitto industriale e struttura d'impresa alla FIAT 1919-1979
Che la storia di questo secolo sia stata ampiamente segnata dal conflitto industriale, cioè dalla contrapposizione di interessi tra capitale e lavoro nelle grandi concentrazioni manifatturiere sorte tra la seconda metà dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, è considerazione fin troppo ovvia, sia per la cultura socialista sia per quella liberale. Le grandi fabbriche, organizzate secondo modelli funzionali di combinazione dei fattori produttivi, sono state forse il simbolo più grandioso di una intera fase di sviluppo delle società contemporanee: l'elemento attorno al quale, per oltre un secolo, nelle aree più avanzate del pianeta si sono strutturate non solo l'economia, ma anche la società, la politica, la stessa cultura. E oggi, in una fase in cui l'economia mondiale sembra dipendere assai più dal capitale finanziario che da quello industriale, e in cui la produzione di merci avviene secondo altri modelli organizzativi, quelle vicende hanno il senso di un fenomeno che si è forse concluso definitivamente e del quale è possibile ricercare il significato complessivo anche con gli strumenti dell'indagine storiografica. Il nuovo libro di Berta affronta questi temi analizzando il caso che più di ogni altro, in Italia, ha visto manifestarsi il fenomeno del conflitto industriale in forme massificate e politicamente rilevanti, al punto da rappresentarne, nell'identità collettiva della nazione, l'emblema stesso. E lo fa tentando di cogliere gli elementi di fondo che hanno determinato, a suo giudizio, i limiti delle relazioni industriali in Italia: in primo luogo l'incapacità da parte dei suoi attori (il management d'impresa e le organizzazioni dei lavoratori) di definire per via contrattuale un sistema di regole con le quali gestire il conflitto stesso, in forme analoghe a quelle definite da altri capitalismi europei, nordamericani e giapponesi. In realtà il libro non ricostruisce l'intera vicenda delle relazioni industriali alla Fiat; non è un'opera di storia tradizionale, ma è piuttosto un saggio di sociologia storica nel quale l'autore ha "cercato di condensare il senso di una riflessione partita dalle ricerche dell'Istituto Gramsci piemontese alla fine degli anni settanta, sviluppatasi nel confronto con alcuni esponenti di spicco del sindacalismo torinese e arricchitasi poi in maniera determinante nell'esperienza di lavoro dell'Archivio storico Fiat, che Berta da alcuni anni dirige e dal quale ha attinto gran parte del materiale documentario (di particolare rilievo sono alcune testimonianze di dirigenti Fiat, ora depositate presso l'Archivio). L'interesse dell'autore è interamente incentrato su tre momenti storici nei quali il conflitto alla Fiat assunse caratteristiche dirompenti: la crisi del primo dopoguerra, culminata nell'occupazione delle fabbriche nel settembre 1920; la ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, segnata da un lungo braccio di ferro con il sindacato a guida comunista; e il decennio di "conflittualità permanente" seguito all'autunno caldo del 1969, con i suoi tragici e controversi risvolti nel terrorismo (si ferma però al 1979 e al famoso licenziamento dei "sessantuno", giudicando che "quel che avvenne durante l'anno successivo [la vertenza sui licenziamenti e la cassa integrazione che segnò la sconfitta del sindacato e delle organizzazioni operaie in fabbrica] non fu se non la logica prosecuzione della politica intrapresa nell'autunno del 1979". Attorno a questi tre nodi egli articola una riflessione che davvero appare, per molti versi, unitaria e che sembra possibile riassumere nella considerazione che in generale "le relazioni industriali - come sistema di rapporti formali e procedurali in grado di contenere e raffreddare il conflitto - sorgono alla Fiat dopo la sconfitta del movimento operaio", poiché nel vivo dello scontro sia la direzione d'impresa sia le organizzazioni dei lavoratori si rivelano sempre drammaticamente incapaci di sviluppare strategie efficaci e di lungo periodo. La prima preoccupata esclusivamente di ripristinare il proprio comando esclusivo sulla produzione, minacciato dai comportamenti conflittuali degli operai, le seconde prigioniere di concezioni ideologiche e massimalistiche del conflitto che si sviluppa nella fabbrica, e costantemente alla ricerca di un ruolo non solo sindacale, ma anche politico o istituzionale. Mentre altri capitalismi, sotto la frusta di conflitti certo non inferiori per dimensioni e radicalità a quelli italiani, riuscivano a creare - soprattutto nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale - sistemi moderni di rappresentanza dei lavoratori e di mediazione dei conflitti, la realtà italiana si consumava - questa la tesi di Berta - in una contrapposizione tanto esasperata quanto priva di sbocchi positivi. Certo, l'autore mette in evidenza "come l'urto del conflitto industriale abbia cambiato il sistema aziendale e la sua politica aziendale" anche nel caso Fiat, e come "sotto il segno del conflitto [abbiano] preso forma le politiche e le stesse compagini direttive d'impresa", sia all'indomani del "biennio rosso", sia nell'epoca di Valletta e infine "nel momento in cui, attorno all'amministratore delegato Cesare Romiti si coagula e si configura un nuovo nucleo manageriale, tempratosi per anni nella gestione degli scioperi e nelle condizioni di turbolenza continua che essi inducevano". Ma la tesi centrale del libro rimane senza dubbio quella di un deficit strutturale, nell'esperienza di relazioni industriali alla Fiat; e particolarmente severo, a questo proposito, è il giudizio sui mancati esiti della contrattazione articolata, strappata dai sindacati al padronato negli anni settanta, che sarebbe poi stata gestita in forme assurdamente massimalistiche e "monca di regole condivise e di durevole efficacia". Tesi che ha il merito di rimandare ancora una volta ai limiti e ai ritardi del capitalismo italiano, anche nei suoi comparti più avanzati e più aperti al mercato mondiale. E che al tempo stesso ha il pregio di indagare anche sui caratteri di fondo dell'azione sindacale, sottolineandone a più riprese la difficoltà a comprendere l'evoluzione del mondo del lavoro, la tendenza alla ristrutturazione tecnologica, le modificazioni nella composizione stessa della classe operaia. Quali sono, però, le cause di questo insieme di difficoltà? Su questo piano, il libro suscita molte domande alle quali non sempre offre risposte approfondite e del tutto convincenti. In un solo punto, riferendosi al secondo dopoguerra e all'esperienza del sindacalismo autonomo alla Fiat, Berta indica apertamente una serie di fattori più generali che si opposero al riconoscimento della presenza sindacale in fabbrica: "l'ostilità delle imprese a riconoscere qualsiasi forma di partecipazione, anche soltanto funzionale, dei dipendenti, un sistema sindacale centralistico e dominato dai partiti, una rappresentanza imprenditoriale cocciutamente conservatrice quanto alle alleanze sociali, un'arena della decisione politica ancora preclusa al labour". Spunti senza dubbio di grande interesse, dai quali traspare tra l'altro un giudizio sul gruppo aziendale che nel 1958 si staccò dalla Cisl ben diverso da quello tramandato dalla memoria storica dei sindacati di classe. E che tuttavia sembrano rimanere semplici suggestioni, un po' isolate nell'insieme dell'opera, quando invece sarebbe stato estremamente utile sviluppare (e approfondire) considerazioni analoghe anche per il periodo successivo. Riflettendo, per esempio, su quale rapporto vi sia stato, anche negli anni settanta, tra l'esaurimento della spinta prodotta dall'autunno caldo e le rigidità del quadro politico, la perdurante tutela partitica sui sindacati, l'ostilità delle stesse confederazioni a un nuovo modello di rappresentanze incentrato sui consigli di fabbrica. Certo, quello di Berta è uno studio particolare, che non aveva tra i suoi obiettivi la ricostruzione di un quadro più generale di relazioni. E indubbiamente sul rapporto tra il conflitto operaio e lo sviluppo della struttura manageriale della grande azienda torinese esso offre elementi di conoscenza e di giudizio di tutto rilievo. Tuttavia si ha l'impressione che alcune questioni, sollevate nel corso dell'opera, rimandino inevitabilmente a fattori storici qui sottaciuti, o trattati solo incidentalmente. È il caso, per esempio, del rapporto tra l'azienda e il potere politico, che sembra difficile ritenere ininfluente sulle scelte e le strategie d'impresa della Fiat. Ma è il caso anche del peso che hanno avuto, nel determinare scenari ed esiti del conflitto, le diverse culture radicate nel movimento operaio italiano, alle quali Berta dedica accenni di grande interesse, ma senza approfondirli. E in questo senso avrebbe forse meritato più spazio una considerazione su come la maggioranza del sindacato, nella più grande impresa automobilistica italiana, abbia sempre faticato ad accettare la realtà dei lavoratori non qualificati, pretendendo di applicare loro schemi ricalcati sull'esperienza degli operai professionali. Dell'importanza di tutti questi fattori, d'altra parte, l'autore stesso era ben consapevole, se nell'introduzione dichiarava che "è necessario ricostruire un profilo delle relazioni di lavoro alla Fiat che non ricalchi né si risolva completamente nell'andamento della conflittualità", e si rifaceva all'indicazione di metodo di Daniel Nelson: "le determinanti da focalizzare sono le tecnologie della produzione di massa, il ciclo economico e l'opera di sostegno alla mobilitazione collettiva prestata dalle organizzazioni dei lavoratori e dai gruppi politici pro labour", precisando che "il terzo fattore, pur influente, non basta di per sé a controbilanciare il peso prevalente degli altri due". Se ne può trarre forse la conclusione che se, invece, il lettore ha l'impressione che anche in questo caso le lotte operaie abbiano finito per essere il nucleo centrale di tutto il libro, questa sia solo l'ennesima riprova di quanto sia radicato in tutti noi il paradigma conflittuale. Il che non è poi un gran male.
recensioni di Scavino, M. L'Indice del 1999, n. 02
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